“Montare
un film significa mettere in relazione gli sguardi fra di loro”. Cito a memoria
una frase letta tanto tempo fa. Nella sua semplicità racchiude tutte le
istruzioni che si possono fornire sulla base di quanto, attraverso prove ed
errori, costituisce la specificità del linguaggio cinematografico e poi
audiovisivo. Uno spazio inquadrato (messo in cornice), infatti, implica una
selezione, la scelta di una finestra attraverso cui guardare. Che si tratti di
un dipinto o di un’immagine automaticamente prodotta da un dispositivo
costituito da una camera oscura e da una pellicola impressionabile. Ciò che
vediamo a una mostra di dipinti, di fotografie, al cinema, alla TV o sullo
schermo di uno smartphone è qualcosa che è stato preventivamente selezionato da
uno sguardo per il nostro sguardo. Ci
può essere aleatorietà, ingenuità, automatismo chimico-meccanico in quella
selezione, ma una volta compiuta e condivisa essa è comunque la traccia di una
presenza che l’ha prodotta, di un occhio che ha visto prima e per noi e di cui
il nostro sguardo costituisce la riattualizzazione in un qui-e-ora più o meno
spazio-temporalmente distante.
È di
questa testimonianza che sono portatori tutti i manufatti prodotti nel passato
e nei quali quotidianamente ci imbattiamo, ma la testimonianza di una azione,
di uno sguardo passato che si rivela e rivive nella nostra funzione
spettatoriale acquista una qualità del tutto nuova quando diventa
meccanicamente, automaticamente riproducibile e dotata di un inequivocabile
realismo dato dall’applicazione di leggi fisiche e chimiche all’ottica: la
fissazione di uno sguardo che può essere replicato ad libitum.
Quando i
fratelli Lumière presentarono la loro invenzione nel 1895 chiamarono le loro
fotografie in movimento vues, cioè “vedute”, riferendosi esplicitamente a una
tradizione prima pittorica e poi fotografica alla quale si aggiungeva la
riproduzione automatica non solo dello sguardo istantaneo ma di una durata
temporale di questo sguardo, mimando la percezione umana (anche se monoculare e
in bianco e nero, come a dire quella di un solo occhio sprovvisto di coni). Era
uno “spettacolo”, qualcosa che si offriva al nostro sguardo di spettatori
privilegiati, posti in prima fila in un teatro in cui, come negli Hale's Tour of the World di inizio '900, in cui da seduti si
veniva trasportati a bordo di una carrozza treno posticcia nei luoghi più esotici o alla presenza di personalità mai
avvicinate e avvicinabili da comuni mortali.
M. Ophüls, Lettera da una sconosciuta, 1948: i protagonisti flirtano a bordo della finta carrozza di un Hale's Tour. |
Fin da
subito fu uno sguardo d’insieme, teatrale, lo spazio in cui l’azione poteva
naturalmente esplicarsi in continuità, assistere a battaglie a palle di neve,
all’uscita di operai dalla fabbrica, al lavoro delle lavandaie lungo la sponda
di un fiume. Ma non mancavano scenette più “ricreative”, gag comici, effetti a
sorpresa possibili solo al nuovo dispositivo, come la locomotiva di un treno
che scompare prima di travolgere il pubblico, o un muro sbriciolarsi sotto i
colpi di piccone e poi ricostruirsi identico a prima. È uno spazio grigio,
seppur luminoso, silenzioso e limitato da una cornice di buio come dai margini
di un sipario a teatro. Tutto è portato a questa esistenza fantasmatica
absoluta oltre la quale c’è il nulla, il non essere. L’intorno, come quello che
sta dietro e davanti quell’immagine piatta fatta di luce proiettata, sostengono
e al contempo proteggono/escludono quello spazio di simulacri da quello della
entropia che procede inesorabile.
[A integrazione, riporto quanto evidenzia G. Tandoi in un commento del 2020 a questo post: i primi film spesso traevano spunto, per le storie o le gag narrate,
dai fumetti presenti sulle riviste. I “comic strip”, in italiano “le
strisce a fumetti”, erano così chiamati perché inserite come sequenze
di quattro o cinque vignette poste orizzontalmente, una a fianco
all'altra.
Quando il cinema fu lanciato nel 1895, i fumetti erano ormai una realtà ben definita. Negli anni ottanta del 1800 essi apparivano sulle riviste settimanali di stampo umoristico come: Puck, Punch, Life, Judge, Fliengend Blattre, La Rie, La Caricature e Le Chat Noir. La maggior parte erano semplici gag, ma alcune ospitavano anche personaggi ricorrenti.
I primi filmmaker non potevano ignorare la popolarità di tali fumetti e spesso erano portati a trasporle sullo schermo. Certo per loro non era ancora concepibile passare al découpage già presente in alcune strisce. Non potevano far altro che raccontare le loro storie in un unico piano sequenza.
I fumetti fornivano diverso materiale utile per i primi film, anche grazie alla loro brevità che ben combaciava con la durata di pochissimi minuti delle prime pellicole.
L'Arrosuer et arrosé, uno dei primi film narrativi, ne è un esempio, dato che si ispirava a un fumetto ormai datato. Erano già apparse due versioni nel 1887, ma la sorgente definitiva fu il disegno del 1889 del francese Georges Colomb, in arte “Christophe”. Per il debito ai comics del film Lumière L'annaffiatore annaffiato, vedi i materiali presenti al link: http://www.topfferiana.fr/2010/10/arroseurs-arroses/]
Quando il cinema fu lanciato nel 1895, i fumetti erano ormai una realtà ben definita. Negli anni ottanta del 1800 essi apparivano sulle riviste settimanali di stampo umoristico come: Puck, Punch, Life, Judge, Fliengend Blattre, La Rie, La Caricature e Le Chat Noir. La maggior parte erano semplici gag, ma alcune ospitavano anche personaggi ricorrenti.
I primi filmmaker non potevano ignorare la popolarità di tali fumetti e spesso erano portati a trasporle sullo schermo. Certo per loro non era ancora concepibile passare al découpage già presente in alcune strisce. Non potevano far altro che raccontare le loro storie in un unico piano sequenza.
I fumetti fornivano diverso materiale utile per i primi film, anche grazie alla loro brevità che ben combaciava con la durata di pochissimi minuti delle prime pellicole.
L'Arrosuer et arrosé, uno dei primi film narrativi, ne è un esempio, dato che si ispirava a un fumetto ormai datato. Erano già apparse due versioni nel 1887, ma la sorgente definitiva fu il disegno del 1889 del francese Georges Colomb, in arte “Christophe”. Per il debito ai comics del film Lumière L'annaffiatore annaffiato, vedi i materiali presenti al link: http://www.topfferiana.fr/2010/10/arroseurs-arroses/]
Prendiamo
un paio di esempi: l’Annaffiatore annaffiato, in una delle versioni più note e
l’Enfant au ballon. Sono entrambi due gag comici che si risolvono ciascuno
nello spazio dei 50” canonici permessi al caricatore di pellicola delle
macchine da presa Lumière, ma presentano una costruzione, spaziale e
drammaturgica, opposta.
Nel
primo lo spazio è strutturato secondo linee orizzontali e verticali e si
conclude riproponendoci la stessa situazione di partenza; il secondo presenta
anch’esso una costruzione spaziale secondo le regole della sezione aurea, ma è
strutturato su linee diagonali, quindi in profondità piuttosto che in
superficie e si chiude con una situazione di totale sconvolgimento rispetto a
quella di partenza.
Analisi Annaffiatore annaffiato (Lumière, 1895)
La scena si apre con
l’immagine frontale di un giardino, chiuso sullo sfondo da un muricciolo e una
fila d’alberi. Lo spazio è suddiviso in linee orizzontali secondo le
proporzioni della sezione aurea. Questa scelta non è ovviamente casuale ed è
fortemente produttiva sul piano anche della disposizione degli elementi
“mobili” all’interno del quadro. Riprendendo alcune riflessioni di Eizenstein a
riguardo, verrebbe da far notare come la sezione aurea sia per eccellenza
“narrativa”, in quanto espressione di un universo in evoluzione (la sezione
aurea è anche il rapporto matematico dell’evoluzione spiraliforme, presente in
natura nelle conchiglie, nei gusci di lumaca…). Come è noto, essa è il rapporto
fra il lato del rettangolo e la diagonale (sempre lei!), alla cui altezza vengono
associati gli elementi più significativi dell’immagine, per dare ad essa
movimento, un senso istintivo di “armonia”. Questi punti corrispondono
all’incirca ai 2/3 dei lati del rettangolo che si incrociano idealmente
all’interno del quadro formando un rettangolo nel rettangolo (inutile
sottolineare che l’arte figurativa moderna nasce anche dal rifiuto o dalla
ipertrofizzazione di questo “accademismo” figurativo, vedi Mondrian).
Tutta la scenetta
lavora su queste linee portanti. Ma analizziamola ora sotto il profilo
drammaturgico: cosa notiamo? Partiamo dal fatto che non vi è narrazione senza
conflitto, qui il conflitto è evidente, fra il monello e l’annaffiatore. Ma
potremmo anche sottolineare che è evidente anche il conflitto, la dialettica,
fra ciò che è in campo e ciò che non lo è e, anticipiamolo, sembra risolversi
tutto a favore del primo.
Un uomo sta
annaffiando un giardino. Compare alle sue spalle un ragazzino. Schiaccia con il
piede il grosso manicotto che ha davanti a sé. L’annaffiatore si stupisce
perché non esce più l’acqua. Porta davanti al volto l’ugello. Il ragazzino
toglie il piede dal manicotto. L’acqua schizza in faccia all’uomo. A questo
punto l’uomo vede il monello, lo rincorre, lo prende, lo sculaccia e poi lo
lascia andare. Il monello esce di scena e l’uomo riprende a annaffiare.
Intanto, la scena è perfettamente circolare, si chiude come si è aperta, cosicché tra il primo fotogramma e l’ultimo non c’è differenza alcuna. È elissoidale anche il percorso che il monello fa, da quando entra in campo a quando esce; allo stesso modo è circolare il percorso dell’annaffiatore, con un diametro pari alla metà di quello del monello. I due girano su se stessi, mimando la sculacciata, e poi gira su se stesso il monello, uscendo di campo. Il centro dell’inquadratura è costituito dal “buco nero” di un cespuglio più scuro. Queste giravolte sono significative. La prima interviene quando l’uomo insegue il monello e lo acciuffa (si fa acciuffare) proprio ai margini dello spazio inquadrato. Con una giravolta l’uomo porta il monello dove possa mostrare per bene quello che accade a fare brutti scherzi, cioè al centro del margine inferiore dell’inquadratura. Qui la sculacciata si fa particolarmente “sonora”. Infine il monello se ne va da dove era entrato e si volta su se stesso… a guardare l’operatore, perché convinto di essere ormai fuori campo!
Lo spazio della rappresentazione, della scenetta comica, è tutto in questo spazio teatrale ricreato in giardino, con un fondale reale ma strutturato come fosse dipinto, cioè senza relazione alcuna con quanto avviene in campo, solo una quinta nella quale situare la scena oltre la quale non c’è altro spazio drammaturgico, ma il “nulla”. Il monello non può fuggire oltre lo spazio inquadrato, infatti scappa nella direzione sbagliata, verso il suo fustigatore, e si lascia acchiappare prima di uscire dall’inquadratura.
La sculacciata, acme drammatico e opposto a quello comico precedente, deve avvenire a sua volta nello spazio antistante lo spettatore, la platea. Il ragazzo che si gira inavvertitamente prima di uscire di scena, porta nello spazio scenico uno spazio che non è più diegetico, ma parte dell’apparato tecnico. Semplicemente pensa di essere fuori dalla rappresentazione e quindi libero dalla finzione, come lo era prima di entrare da quello spazio nel quale poi ritorna. Qui si comprende bene la differenza fra quello spazio e il fuori campo.
Il fuori campo è uno spazio immaginato,
limitrofo ma consustanziale alla diegesi mostrata (ci potremmo immaginare il
garzone che si avvicina quatto quatto all’annaffiatore e poi corre piagnucoloso
dalla mamma). Ma i movimenti interni all’inquadratura e quella mossa
inavvertita nel finale ci riportano a una realtà ben diversa. L’unico spazio
reale è quello della rappresentazione, quello in campo. Come se il secondo, il fuori campo,
fosse “inesistente”, fosse una barriera ferrea, ontologica, fra ciò che è e ciò
che non è. Oltre quei margini non immaginiamo più il giardino e la campagna, ma
il set en plein air.
È uno spazio
teatrale con quelle caratteristiche dinamiche che aveva ben evidenziato Bazin,
cioè centripeto, in cui ogni cosa è attratta verso il centro, come un buco nero
di luce, perché nulla esiste oltre la rappresentazione scenica; viceversa il
cinema, nel quale ogni elemento in scena è centrifugo perché richiama l’esterno
dell’inquadratura, con una curiosità che potrà o meno essere soddisfatta
attraverso l’inquadratura seguente, il montaggio. Sì, perché non l’abbiamo ancora
detto: se non ve ne foste accorti, finora ci siamo occupati di film composti da
un’unica inquadratura, di una durata variabile ma non superiore al minuto.
Erano questi i film che i Lumière giravano e facevano girare per il mondo,
siamo ancora agli albori del cinema e il montaggio, come pratica linguistica,
non è ancora stato applicato. Ogni inquadratura era una cellula narrativa in sé
conclusa e autonoma. C’era chi, come Méliès, giustapponeva queste inquadrature
fino a creare storie più complesse ma, lo vedremo, le sue erano piuttosto
necessità di “economia dello spettacolo”, cioè quella di allungare la quantità
di trucchi messi insieme.
In questo caso il gag è dato dall’esplodere dell’entropia che travolge tutti, nulla può tornare come prima.
Spazialmente strutturati in maniera opposta, uno su linee ortogonali e quindi in superficie, l’altro su linee diagonali e quindi in prospettiva, costituiscono i due tipici spazi della messinscena Lumière. In entrambi questi esempi l’azione si sviluppa ai bordi dell’inquadratura e viene portata “davanti e al centro” per raggiungere il suo acme. La natura di questo cinema delle origini, come notava Bazin, è tipicamente teatrale, centripeta, perché tutto è attratto verso il centro fisico della scena al di fuori della quale, come a teatro, non vi è uno spazio commensurabile seppur invisibile, ma una cesura netta, ontologica rispetto alla sala e allo spettatore. Siamo all’interno di un Modo di Rappresentazione Primitivo (MRP), come lo descrive Noël Burch (Il lucernario dell'infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, 1994), al quale si sostituirà nel giro di un ventennio il Modo di Rappresentazione Istituzionale (MRI), quello che ha sviluppato il suo specifico linguaggio mediale affrancandosi dai media che lo hanno preceduto e che ha in un primo momento ri-mediato: la pittura, la fotografia, il teatro.
Caratteristiche del MRP (non è detto debbano sussistere tutte insieme, ma ciascuna ne implica necessariamente altre, per esempio se l'inquadratura è distante dal soggetto, esso per rendere esplicite le proprie azioni o intendimenti deve necessariamente esagerarli):
- inquadratura fissa, frontale e a notevole distanza dai soggetti
- luce diffusa
- inquadratura come entità autonoma e autosufficiente (conclude in sé tutto il senso della visione)
- presenza di fondali dipinti
- recitazione esagerata (pantomima teatrale)
MRP: videosaggio di F. Reggio |
Nessun commento:
Posta un commento
Se hai delle idee per migliorare, implementare, modificare, correggere questo post SEI IL/LA BENVENUTO/A !