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martedì 6 febbraio 2024

4.3 Il pdv nei film di Hitchcock

La ripresa dei fatti da punti di vista diversi, e le varie tipologie di montaggio, rendono possibile la nascita di uno spazio-tempo cinematografico che va oltre a quello reale. È proprio quando il cinema non riproduce fedelmente la realtà, ma la modifica, la trasforma, che diventa linguaggio ed espressione artistica. Nell’immensa filmografia di Alfred Hitchcock è risaputo come gli elementi narrativi del racconto cinematografico, e lo sguardo, vengono sapientemente “traditi” e al tempo stesso non perdono la loro armonia. Nel fare questi sublimi “tradimenti” il cineasta stravolge il punto di vista dello spettatore, che si identifica con lo sguardo della macchina da presa, permettendogli di alternare i più svariati punti di vista e facendone indubbiamente una delle sue molteplici caratteristiche interessanti. A proposito, dice il regista:

«Provo ribrezzo per quella che chiamo fotografia da passaporto, ovvero la ripresa frontale: è noiosa, priva di interesse; e un leggero scostamento da questa posizione non significa tanto il desiderio di riprendere una qualunque cosa da prospettive di scorcio, dall’alto, dal basso o da dove le pare, quanto il voler evitare le banali inquadrature standard»

Nella carriera cinematografica di Hitchcock è ricorrente una posizione inusuale della macchina da presa rispetto agli eventi narrati, che “obbliga” lo spettatore ad un punto di vista che, molte volte, potrebbe apparire surreale e disturbante. A proposito di surreale, un primo esempio è sicuramente quello proposto nella sequenza onirica di Io ti salverò (Spellbound, 1945), che intrappola lo spettatore all’interno delle opere del pittore spagnolo Salvador Dalì, permettendo in questo modo una visione in soggettiva di ciò che il protagonista (Gregory Peck) sta sognando.

          

Sempre nel film Io ti salverò è possibile trovare un’altra inquadratura non convenzionale che pone lo spettatore nei panni del Dr. Murchison (Leo G. Carroll) che, dopo essersi puntato contro una rivoltella, si toglie la vita, mostrando dunque l’arma che si rivolge verso la macchina da presa.

           

Un’altra soggettiva geniale è certamente quella messa in atto in La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), dove, per farci identificare nell’acrofobia di Scottie (James Stewart) il regista, mediante la combinazione di un carrello all’indietro con uno zoom in avanti (effetto Vertigo, poiché prende il nome proprio dal film), provoca una sensazione estremamente vertiginosa.

            

L’altro uomo (Strangers on a train, 1951) ci propone un altro punto di vista molto particolare (questa volta non in soggettiva), ovvero ci mostra la scena dell’omicidio di Miriam (Kasey Rogers) dal riflesso degli occhiali della vittima stessa, appena finiti a terra per mano dell’assassino, per infine mostrarci quest’ultimo intento a raccoglierli.

             

Il movimento della macchina proposto in Notorious (Id., 1946), permette, invece, allo spettatore di avere una panoramica dell’ambiente dall’alto per poi “planare” lentamente al dettaglio della mano di Ingrid Bergman, al centro dell’immagine, che custodisce una chiave.

               

Nodo alla gola (Rope, 1948) propone uno sguardo solamente dall’interno dell’edificio (a parte l’establishing shot, posto nei titoli di testa), riducendo al minimo indispensabile i tagli delle inquadrature e del montaggio tra loro, imprigionando, in questo modo, anche lo spettatore all’interno della vicenda narrata. Il punto di vista è, in questo film, uno soltanto, ma che si muove, come un funambolo, negli spazi dei personaggi, senza mai ricorrere a un’inquadratura soggettiva.

            

Nel film Frenzy (Id., 1972) è spettacolare il modo nel quale allo spettatore è negato l’accesso all’interno della scena del crimine, dove invece entrano i due personaggi. Una volta che Bob (Barry Foster) e Barbara (Anna Massey) entrano nell’appartamento, la macchina da presa, tramite uno straordinario piano sequenza, ripercorre all’indietro le scale fino ad uscire dall’edificio e attraversare la strada.

             

Come si può notare, il regista mescola in maniera eccezionale quelle che G. Genette chiama focalizzazioni del racconto (in 4.3 Il narratore al cinema), facendole susseguire, concatenare e a volte coesistere, al fine di creare una tensione drammatica che va ben oltre alla suspence di quella narrativa. Spesso i personaggi di Hitchcock si muovono con la sensazione di essere costantemente sotto l'occhio di un osservatore invisibile, cosicché a volte un'inquadratura oggettiva si rivela essere soggettiva mentre altre volte lo sguardo di un personaggio nasconde quello del narratore; basti pensare a La finestra sul cortile (Rear window, 1954), che molti critici hanno analizzato come un vero e proprio film sul cinema, poiché lo sguardo del protagonista interpretato da James Stewart, essendo immobilizzato (o quasi) sulla sedia a rotelle, nasconde e al tempo stesso coincide quello del narratore stesso.

(L. Pengo, 2023)