In Intolerance Griffith inserisce fra le diverse
sequenze, e con un ritmo crescente nel finale, un’inquadratura che di per sé
appare del tutto irrelata rispetto al contesto, non appartenendo a nessuna
delle situazioni, delle storie raccontate. È quella, celebre, della donna che
dondola una culla, seduta in una stanza spoglia con sullo sfondo tre donne
sedute, un fascio di luce che dall’alto illumina il centro della scena occupato
dalla culla e dalla donna.
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Intolerance, Griffith, 1918. |
Come interpretare questa
inquadratura? Certo non in senso narrativo, non avendo relazione diretta con le
storie raccontate, semmai in senso “simbolico”, come un contrappunto alla
violenza che contraddistingue le epoche dell’umanità. Una donna che culla il
proprio neonato è quanto di più distante rispetto all’intolleranza soggetto del
film. Qui troviamo pace, amore, serenità, fiducia nel futuro. Il raggio di sole
è un evidente riferimento alla luce divina che benedice madre e figlio. Le tre
figure femminili sullo sfondo rimangono testimoni misteriose della scena,
comprensibili se collocate all’interno della mitologia classica (sono vestite
con lunghe tuniche) e in rapporto al movimento pendolare che caratterizza la
culla. La ricorsività dell’immagine può essere infatti vista come un
“frequentativo”, la culla-pendolo il trascorrere del tempo, le tre donne le
Parche che sovrintendono ai destini umani. Come a sottolineare il contrasto fra
l’amore filiare che incessante continua a dare speranza di pace e amore a
un’umanità in perenne conflitto. “Dalla culla del tempo, in perpetuo dondolio”
è la didascalia che accompagna questa inquadratura. Anche se non accreditato è
evidente il riferimento al poema di Walt Whitman Out of the cradle endlessly rocking, da cui il verso è
tratto.
L’inquadratura descritta, esclusa com’è dalla
diegesi del film, non racconta ma rappresenta, è un messaggio rivolto
direttamente dal film allo spettatore affinché rifletta e prenda posizione
rispetto ai mali provocati dall’intolleranza, dall’odio, dal desiderio di
sopraffazione. Evidenzia l’altra fondamentale funzione del montaggio, quella
semantica. Questa funzione sottolinea un’evidenza: nessuna sintassi è “neutra”.
Per quanto la narrazione possa apparire realistica e naturale, esprime sempre
una scelta, una ideologia, un punto di vista dal quale viene raccontata.
Altri due esempi molto simili fra loro per
contenuto saranno utili per evidenziare questo valore semantico.
Ci riferiamo agli incipit di due film a cavallo
fra muto e sonoro, il primo è Tempi moderni di Chaplin, 1936, il secondo è
Metropolis, di Fritz Lang, 1927. In entrambi ritornano simili elementi formali
e di contenuto: l’orologio a scandire il tempo; gli ingranaggi di giganteschi
macchinari; gli operai che vanno o tornano dal turno in fabbrica; le grate dei
luoghi di lavoro come sbarre. Quello di Chaplin si apre con una didascalia
sullo sfondo dell’orologio che procede inesorabile: “… Umanità… Marcia... Progresso...”.

In entrambi dunque l’opinione dei due registi
sull’argomento è subito dichiarata, ma la scelta di montaggio per renderla è
molto diversa. In Chaplin il passaggio dalla didascalia al gregge alle persone
crea una evidente similitudine (gregge/operai) attraverso l’inserimento di una
inquadratura extradiegetica per cui la cesura con quella che precede e quella
che segue è interpretata diventa un “come”. Nel caso di Lang
l’inquadratura-similitudine non compare, tutto è reso attraverso la messinscena
(direzione delle comparse, costumi, décor) a richiamare per analogia situazioni
diverse. Non abbiamo più “operai come
gregge di pecore” ma “operai-carcerati (soldati, robot). Ci troviamo qui nel
campo semantico della metafora (nelle grammatiche di solito definita una
“similitudine senza il come”). La
differenza è sostanziale sotto il profilo tecnico-linguistico ma anche sotto
quello “ideologico”. Chaplin dichiara esplicitamente il suo punto di vista e lo
“impone” allo spettatore, Lang fa in modo che esso venga suggerito, traspaia,
rimanga fluttuante, al limite subliminare,
nella mente dello spettatore, come in attesa di ulteriori conferme (il robot
sosia di Maria, l’operaia eroina del film).
Nascita dell'automa spirituale
Fra la prima soluzione e la seconda non è tanto
una questione di “poetica”, di maggiore o minore leggerezza del tocco
registico, quanto di assunzione di un preciso rapporto con lo spettatore, il
primo assertivo, autoritario, apodittico; il secondo epidittico, dimostrativo,
oggetto di valutazione e interpretazione. Non si tratta di fare una valutazione
etica e nemmeno estetica sulle scelte dei due registi, semplicemente si
evidenzia un fatto: il linguaggio cinematografico ha in sé la capacità di
condurre invariabilmente lo spettatore, più o meno direttamente, più o meno
manifestamente, a prendere una posizione, ad avere un’opinione sul tema che gli
viene sviluppato davanti. È questa sua capacità di attrazione a costituire il
suo ambivalente, etimologico, fascino.
Si è ampiamente discusso in campo teorico se il
cinema sia in grado di creare metafore o solo similitudini (accostamenti di
immagini), e l’approccio qui utilizzato è già di per sé un’implicita risposta,
ma non è tanto su questo problema “retorico” che una didattica dell’audiovisivo
trova motivo di riflessione, quanto sui metodi che l’audiovisivo può mettere in
atto per “indurre” un certo tipo di lettura del testo piuttosto che un altro.
Paradossalmente, dal punto di vista realistico, appare più mimetica la scena
proposta da Chaplin – con il disordinato avviarsi degli operai al lavoro nel
quale l’inquadratura del gregge appare come un ironico inserto – piuttosto che
quella di Lang, nella quale è prevalente l’elemento geometrico e ritmico, gli
uomini sono rappresentati come una serie di automi in trance. Il paradosso è
solo apparente, perché nei fatti a Lang l’illusione di realtà non interessava
quanto a Chaplin, e questo non solo perché il mondo presentato dal regista
inglese fosse contemporaneo mentre quello del regista tedesco fosse la
rappresentazione distopica di una città del futuro. In un cinema in cui
l’interesse principale è quello dell’interpretazione del mondo, più che della
sua illustrazione, l’elemento narrativo è in secondo piano rispetto al
messaggio ideologico (non che questo non fosse presente nel film di Chaplin, ma
proprio la sua presenza nell’incipit lo pone come un fatto sul quale innestare
l’elemento ludico-narrativo, come se il regista dicesse “che le cose stiano
così siamo tutti d’accordo, vediamo ora quale storia possiamo farci sopra, e
magari, fra una risata e l’altra, riusciamo anche a sopravvivere”). Non basta,
invece, al cinema di Lang riprodurre realisticamente il mondo, anzi, il suo
scopo principale è quello di interpretarlo attivamente. In questo il regista
tedesco non è certo il primo e nemmeno l’unico e il fatto che sia il cinema
europeo ad aprire in questa direzione, alla fine degli anni ’10, è in gran
misura comprensibile in rapporto alle esperienze drammatiche vissute
direttamente dall’Europa in quel decennio e dagli USA solo indirettamente. La
prima guerra mondiale aveva infatti fatto scoppiare non solo un conflitto di
massa, ma anche un attivismo di massa per cui tutti i vari strati della
popolazione erano stati progressivamente chiamati a partecipare, in un modo o
nell’altro, alle sorti della “Patria”. Per fare questo si sviluppa la moderna
propaganda alla quale danno il loro contributo fondamentale tutti i media e in
particolar modo i moderni media elettronici. Cinema, radio, giornali sono
chiamati non tanto a informare sulle sorti del conflitto ma piuttosto a creare
su di esso delle idee precise, nette, semplici. Fra queste, quella di far
riconoscere chiaramente al popolo quale fosse il nemico e le ragioni per cui lo
si combatteva, creare degli slogan e delle formule di facile e univoca
interpretazione. In questo il cinema si rivelò un’arma molto efficace vista la
capillare diffusione, il successo di pubblico e la sua facilità comunicativa.
Non è un caso che, dalla fine degli anni ’10 e poi fino alla II Guerra
Mondiale, il cinema sia stato uno dei media sui quali maggiormente i regimi
totalitari si sono impegnati finanziariamente e ideologicamente.
Fra questi, il più importante e artisticamente
produttivo, fu di certo quello che emerse dalla prima, esuberante, utopistica,
sinceramente, forse ingenuamente, classista, stagione del cinema rivoluzionario
russo, almeno fino all’avvento di Stalin al potere. Fra i registi di questo
periodo (Pudovkin, Vertov, Kulesov ecc.) il nome sul quale ci soffermeremo è
già più volte apparso, quasi come pietra di paragone, in queste pagine, ed è
quello di Sergej Michailovich Ejzenstein. Perché il regista della CorazzataPotëmkin è stato uno dei teorici del cinema più prolifici e ha lasciato una
serie di scritti e di riflessioni, sulla sua opera e su quella di altri che
rimangono ancora oggi dei stupefacenti saggi semiotici ante litteram, su come
si possa leggere un’immagine e quanto una semplice scena possa comunicare a
livello conscio e subliminare.
L’ampiezza culturale e la bulimia di letture che emergono dai suoi scritti
costituiscono già di per sé elemento di fascino, al quale si aggiunge la straordinaria
capacità di trarre riflessioni e insegnamenti dai campi più disparati
dell’agire umano, passando di pensiero in pensiero, di relazione in relazione,
in un progresso vorticoso dell’argomentazione, fino a rischiare, come a volta
avviene, di non riuscire più a recuperare il bandolo della matassa e mancare la
conclusione del discorso.
La sua idea di partenza è che il cinema possa e
sappia significare molto di più di quello che semplicemente mostra. Per
comprendere questo bisogna riflettere attentamente e affinare la lettura degli
elementi base del suo linguaggio, quali l’inquadratura e il montaggio, meglio
ancora il montaggio fra le inquadrature e il montaggio interno all’inquadratura
stessa. Perché ogni inquadratura possiede in sé le possibilità che il montaggio
esprime compiutamente attraverso l’azione del regista-demiurgo. Una struttura
che potremmo definire frattale: “in altre parole, il conflitto compositivo
all’interno dell’inquadratura è in qualche modo un nucleo, una cellula di
montaggio, che va soggetta alla legge della scissione con il crescere della
tensione del conflitto. Il montaggio è un salto di qualità della composizione
interna all’inquadratura” (Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, p. 13).
Secondo Ejzenstejn non vi è azione senza conflitto, non vi è azione che non
sviluppi una reazione. In modo analogo, non vi è pensiero senza conflitto, in
quanto il pensiero promana dalla collisione di elementi che, presi
autonomamente, risultano inerti. Per vedere il conflitto all’interno dell’immagine,
bisogna imparare a leggerla attentamente nelle sue parti costitutive, si noterà
allora che vi è un conflitto fra le direzioni grafiche che la compongono, un
conflitto fra le figure geometriche, fra i volumi (dato dalla diversa intensità
luminosa, dal chiaro-scuro), fra gli spazi (la profondità di campo). Allo
stesso modo questi rapporti intervengono, devono essere ricercati, fra
inquadratura e inquadratura, in modo tale che quello che ne deriva non sia una
semplice somma, ma un surplus di significato, una immagine terza, coalescenza
mentale delle due (1+1=3). Per comprendere dalle fondamenta il significato di
questo discorso e valutare l’importanza basilare che il cinema sovietico dà al
montaggio nell’opera di costruzione del discorso filmico, vale la pena di
richiamare il celebre esperimento di Kulesov e l’effetto che dal suo ideatore
ha preso il nome. Ma lasciamo direttamente alle parole del regista Pudovkin,
che di quell’esperimento fu testimone, raccontare in cosa consiste:
Prendemmo da alcuni vecchi film alcuni primi
piani del celebre attore Mozzuchin e li scegliemmo statici e tali che non
esprimessero alcun sentimento. Unimmo poi questi primi piani, che erano del
tutto simili, con altri pezzi di pellicola in tre diverse combinazioni.Nel primo caso, il primo piano di Mozzuchin era
immediatamente seguito dalla visione di un piatto di minestra sopra un tavolo;
ed era cosa ovvia e sicura che l’attore guardava quella minestra. Nel secondo
caso, la faccia di Mozzuchin era seguita da una bara nella quale giaceva una
donna morta. Nel terzo era seguito da una bambina che giocava con un buffo
giocattolo raffigurante un orsacchiotto. Quando
mostrammo i risultati a un pubblico non prevenuto e totalmente ignaro del
nostro segreto, ottenemmo un risultato tremendo. Il pubblico delirava di
entusiasmo per la bravura dell’artista. Era colpito dall’alta pensosità con cui
egli guardava la minestra, era scosso e commosso dalla profonda afflizione con
cui guardava la donna morta, era ammirato dal luminoso sorriso con cui guardava
la bambina. Ma noi sapevamo che in tutti e tre i casi la faccia era la stessa.
(Pudovkin, 1928)
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Una riproduzione d'epoca dell'esperimento di Kuleshov (e come lo descrive Hitchcock!) |
L’associazione
di due immagini può produrre un senso diverso da quella che ognuna in origine
ha, anzi, ciascuna immagine non rappresenta che se stessa, è in rapporto con quella a cui si accompagna che acquista un significato. Se Mozzuchin appare di volta in volta affamato, triste o felice è perché il
suo volto, il suo primo piano impassibile, è aperto alle più diverse
interpretazioni, che solo l’immagine accoppiata doterà di un senso piuttosto
che un di altro. Il montaggio, questo accoppiamento, si caratterizzerà così
innanzitutto per la sua funzione di produrre senso attraverso il coinvolgimento
attivo dello spettatore: il montaggio si crea nella mente dello spettatore. Gli operai di Chaplin sono un gregge di pecoroni, così come il dittatore Kerenskji, con il suo
atteggiarsi, i suoi stivali e i suoi guanti di pelle lucida, davanti alle porte
regali dello zar non è altro che un pavone, e nemmeno un pavone vero, ma
meccanico, un burattino ruffiano nelle mani dell’aristocrazia liberticida russa
(Ottobre, Ejzenstejn, 1928).
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Kerenskij alle porte dello Tzar: pavone + uomo = "pavoneggiarsi" (Ejzenstejn, Ottobre, 1928). |
Potremmo
definire ogni inquadratura come un sostantivo, mentre una coppia di
inquadrature crea un verbo, un’azione. In questo senso Ejzenstejn vede la
corrispondenza fra il montaggio cinematografico e gli ideogrammi dell’estremo
oriente dove, se mettiamo insieme l’immagine che riproduce stilizzato un occhio
(“occhio”, “vista”) e quella che riproduce una goccia (“pioggia”), otteniamo il
verbo “piangere”. Senza spostarci troppo dalla nostra esperienza quotidiana, è
quanto mettiamo sempre più in pratica nell’odierna comunicazione postverbale,
fatta di meme e emoticon:
Quella che
abbiamo visto essere la funzione semantica del montaggio usata ironicamente da
Chaplin nell’incipit di Tempi moderni è la stessa che aveva utilizzato in più
occasioni Ejzenstejn (e non solo lui, ovviamente) in Sciopero (1925), fra le
quali la celebre e drammatica strage finale degli operai a opera dell’esercito
alternata a crude immagini del macello di un manzo.

Qualche esempio:
le gambe
degli operai / le ciminiere: attrazione formale: sono le gambe, il corpo degli
operai che fa funzionare le fabbriche (Sciopero, 1925);la
scalinata con i cittadini in fuga / l’aggressione dei soldati: contrasto di
linee e di movimento; oppressi e oppressori (La corazzata Potëmkin, 1925).
Quindi il
conflitto non riguarda solo il rapporto fra piani, ma è anche per Ejzenstejn uno “stadio
dell’inquadratura”: il conflitto delle direzioni grafiche (delle linee); il
conflitto dei piani (tra loro); il conflitto
dei volumi; il
conflitto delle masse (dei volumi sottoposti a diversa intensità luminosa); il
conflitto degli spazi ecc.I conflitti
che richiedono soltanto un ulteriore impulso di intensità per scindersi in
coppie di pezzi antagonisti. Primo piano e profondità di campo. Pezzi con
orientamento grafico divergente. Pezzi a dominante volumetrica e pezzi a
dominante piana. Pezzi scuri e chiari… ecc.
In altre
parole, il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è in qualche
modo un nucleo, una cellula di montaggio, che va soggetta alla legge della
scissione con il crescere della tensione del conflitto. Il montaggio è un salto
di qualità della composizione interna all’inquadratura.
Soffermiamoci
ora sulla scena di Kerenskji che sale dallo zar, lasciandola spiegare allo stesso Ejzenstejn (Drammaturgia della forma cinematografica, in Il Montaggio, pp. 35-36), che prosegue poi con un altro esempio, sempre dallo stesso film, quello delle "Divinità":
Esempio 1.
Ottobre
L’ascesa di
Kerenskij al potere e alla dittatura dopo i giorni del luglio 1917.
L’effetto
satirico viene ottenuto montando insieme didascalie di cariche (“dittatore”,
“generalissimo”, “Ministro della marina e dell’esercito” ecc.) sempre più alte
con 5-6 pezzi della scala del Palazzo d’Inverno su cui Kerenskij percorre ogni
volta sempre lo stesso tratto.
Qui il
conflitto tra il continuare a salire le scale e il rimanere sempre allo stesso
punto produce una risultante intellettuale: il discredito di quei titoli sempre
più altisonanti in rapporto alla nullità di Kerenskij agli occhi di Ejzenstejn
e della vulgata bolscevica. Abbiamo il contrappunto tra un’idea convenzionale
espressa verbalmente e una rappresentazione visiva di un caso particolare di
inadeguatezza nei confronti di quella idea. Il disaccordo fra questi due
fattori produce una risoluzione puramente intellettuale a scapito di quel caso
particolare. Stessa soluzione è quella adottata subito dopo quando le velleità di
Kerenskij vengono illustrate attraverso il raccordo fra le statue che porgono
la corona d’alloro, inquadrate dal basso, e la testa di Kerenskij, inquadrata
dall’alto a significare la sua incoronazione. L’effetto di ripetizione già
adottato per descrivere l’ascesa del “lacchè dello Zar” è ripreso con
l’apertura delle massicce porte del potere zarista i cui battenti si aprono più
volte, con un falso raccordo, a far entrare il burattino che si pavoneggia. Da
notare che il passaggio al pavone meccanico avviene attraverso un raccordo
formale fra la testa dal profilo aquilino di uno degli ufficiali che accompagna
Kerenskij al collo e testa del pavone meccanico con il becco prominente.
[per
un’analisi approfondita di questa sequenza si veda anche: Rondolino-Tomasi, Manuale del film, pp. 242-246]
Esempio 2.
Ottobre
Konrilov
marciò contro Pietrogrado con la parola d’ordine “in nome di Dio e della
patria”.
Tentammo
qui di usare la rappresentazione per scopi antireligiosi. Montammo insieme un
certo numero di immagini rappresentanti la divinità, da un pomposo Cristo
barocco fino a un idolo degli eschimesi. Qui il conflitto si svolge tra il
concetto di “divinità” e la sua simbolizzazione. Mentre nell’immagine del
Cristo barocco concetto e raffigurazione appaiono in completo accordo, i due
elementi si discostano sempre più ad ogni ulteriore immagine. Si mantiene il
concetto di “Dio” e lo si rappresenta con immagini che non corrispondono alla
nostra intuizione di tale concetto. La conseguenza consiste nel produrre conclusioni
antireligiose circa la vera natura della divinità. Anche in questo caso abbiamo
a che fare con una conclusione puramente intellettuale risultante dal conflitto
tra un concetto dato e il suo processo di graduale discredito tendenzioso
tramite una pura visualizzazione.
Tutte
queste soluzioni stilistico-formali ci conducono all’estremo opposto rispetto
al naturalismo, alla trasparenza, del cinema griffithiano e in genere occidentale,
ma al contempo ci rendono evidente come non manchino in quelle una base
narrativa, come in questo non mancano soluzioni espressive anche marcate, come
esemplificato dai raccordi sull’asse nello stesso Griffith e in Colazione da
Tiffany, oppure dall’associazione per similitudine in Chaplin. Non si tratta
insomma di decidere o propendere per una narrazione denotata piuttosto che per
una connotata, semmai di comprendere che il testo cinematografico non è mai
neutro, che denotazione e connotazione sono sempre presenti in esso e la
differenza si pone nel rapporto di forza fra le due, nella scelta registica di
far prevalere l’uno piuttosto che l’altro. Da non sottovalutare inoltre la
distanza temporale e culturale con la quale oggi valutiamo gli esempi fin qui
fatti: quello che all’epoca poteva risultare naturalistico (o viceversa) oggi
non è detto che appaia tale. Bordwell porta in questo senso un esempio
illuminante quando evidenzia come all’epoca la recitazione di Marlon Brando in
Fronte del porto fosse stata acclamata per il suo crudo realismo mentre a noi
oggi “appare deliberato, sopra le righe e poco realistico” (Bordwell, Cinema come arte,
p. 243). Bresson coglie perfettamente la
questione quando nelle sue Note sul cinematografo osserva: “I film di CINEMA
sono documenti storici da riporre negli archivi: come recitavano nel 19.., il
signor X, la signorina Y” (R. Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia, 2008 [1975], p.
14. “CINEMA” scritto tutto in lettere maiuscole è il modo sprezzante con cui Bresson
identifica tutti quei film che scimmiottano il teatro, estremo opposto di
quello che dovrebbe essere il “cinematografo”).
Ejzenstejn
propende dunque per un cinema non realistico, ma iper-realistico (o
sur-realistico), nel senso che non si accontenta tanto e solo di mostrare e
raccontare le cose ma vuole anche che esse pensino, producano una scintilla di
pensiero che esploda nella testa dello spettatore, aprendola a una visione non
puramente mimetica ma intellettuale: “il cinema rivoluzionario sovietico
spaccherà i crani” scriveva un giovane Ejzenstejn e non lo intendeva in senso
metaforico.Quindi è il
montaggio intellettuale il vertice più alto delle possibilità del linguaggio
cinematografico, al di sotto di questo altre forme di montaggio, da quelle più
semplici, legate alla lunghezza fisica (metri di pellicola) delle inquadrature
(montaggio metrico, montaggio ritmico), attraverso quelle in cui entrano in
azione elementi formali (montaggio tonale: la luce; montaggio armonico: linee e
volumi).
Riporto qui il link ad alcune brevi esemplificazioni scovate in rete, alcune con esempi tratti da film più recenti. Non sono del tutto d'accordo con esse, ma può essere comunque utile vederle e valutarle, almeno come prima introduzione (N.B. "overtone editing" corrisponde a "montaggio armonico", anche se non in tutti gli esempi appare chiaramente).
Riporto qui il link ad alcune brevi esemplificazioni scovate in rete, alcune con esempi tratti da film più recenti. Non sono del tutto d'accordo con esse, ma può essere comunque utile vederle e valutarle, almeno come prima introduzione (N.B. "overtone editing" corrisponde a "montaggio armonico", anche se non in tutti gli esempi appare chiaramente).
Questo il migliore, anche se la qualità video è pessima: Five metods (1)
Per gli altri: Five metods (2) e Five metods (3)
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