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domenica 11 ottobre 2020

2.3 Montaggio: funzione sintattica e funzione semantica


In Intolerance Griffith inserisce fra le diverse sequenze, e con un ritmo crescente nel finale, un’inquadratura che di per sé appare del tutto irrelata rispetto al contesto, non appartenendo a nessuna delle situazioni, delle storie raccontate. È quella, celebre, della donna che dondola una culla, seduta in una stanza spoglia con sullo sfondo tre donne sedute, un fascio di luce che dall’alto illumina il centro della scena occupato dalla culla e dalla donna. 

Intolerance, Griffith, 1918.

Come interpretare questa inquadratura? Certo non in senso narrativo, non avendo relazione diretta con le storie raccontate, semmai in senso “simbolico”, come un contrappunto alla violenza che contraddistingue le epoche dell’umanità. Una donna che culla il proprio neonato è quanto di più distante rispetto all’intolleranza soggetto del film. Qui troviamo pace, amore, serenità, fiducia nel futuro. Il raggio di sole è un evidente riferimento alla luce divina che benedice madre e figlio. Le tre figure femminili sullo sfondo rimangono testimoni misteriose della scena, comprensibili se collocate all’interno della mitologia classica (sono vestite con lunghe tuniche) e in rapporto al movimento pendolare che caratterizza la culla. La ricorsività dell’immagine può essere infatti vista come un “frequentativo”, la culla-pendolo il trascorrere del tempo, le tre donne le Parche che sovrintendono ai destini umani. Come a sottolineare il contrasto fra l’amore filiare che incessante continua a dare speranza di pace e amore a un’umanità in perenne conflitto. “Dalla culla del tempo, in perpetuo dondolio” è la didascalia che accompagna questa inquadratura. Anche se non accreditato è evidente il riferimento al poema di Walt Whitman Out of the cradle endlessly rocking, da cui il verso è tratto.
L’inquadratura descritta, esclusa com’è dalla diegesi del film, non racconta ma rappresenta, è un messaggio rivolto direttamente dal film allo spettatore affinché rifletta e prenda posizione rispetto ai mali provocati dall’intolleranza, dall’odio, dal desiderio di sopraffazione. Evidenzia l’altra fondamentale funzione del montaggio, quella semantica. Questa funzione sottolinea un’evidenza: nessuna sintassi è “neutra”. Per quanto la narrazione possa apparire realistica e naturale, esprime sempre una scelta, una ideologia, un punto di vista dal quale viene raccontata.
Altri due esempi molto simili fra loro per contenuto saranno utili per evidenziare questo valore semantico.
Ci riferiamo agli incipit di due film a cavallo fra muto e sonoro, il primo è Tempi moderni di Chaplin, 1936, il secondo è Metropolis, di Fritz Lang, 1927. In entrambi ritornano simili elementi formali e di contenuto: l’orologio a scandire il tempo; gli ingranaggi di giganteschi macchinari; gli operai che vanno o tornano dal turno in fabbrica; le grate dei luoghi di lavoro come sbarre. Quello di Chaplin si apre con una didascalia sullo sfondo dell’orologio che procede inesorabile: “… Umanità… Marcia... Progresso...”. 
A questa segue l’inquadratura di un gregge a cui fanno seguito inquadrature della folla di persone che escono dalla metro e si dirigono verso la fabbrica. Ovviamente non troveremo mai più nel film quel gregge della prima inquadratura, è un’immagine extradiegetica che pone subito in risalto come Chaplin valuti questa “marcia umanità progresso” e quale sarà la critica sociale che, attraverso l’arma dell’ironia e della comicità, verrà messa in scena. Quello di Lang si apre con vasti e asettici corridoi sotterranei lungo i quali si incamminano schiere di operai in tuta. Una didascalia ci dice che è il cambio di turno di lavoro in fabbrica. Gli operai si spostano con passo lento e cadenzato, testa bassa, perfettamente schierati. Scendono nella loro città dormitorio nel sottosuolo attraverso ascensori chiusi con grate. Lang non utilizza immagini extradiegetiche ma attraverso la messinscena il messaggio giunge comunque chiaro allo spettatore: più che a operai siamo di fronte a dei carcerati, a dei tristi soldati, a una massa indistinta di automi (si pensi poi alla funzione dell’automa Maria) tutti uguali, schiavi delle macchine a cui sono preposti.
In entrambi dunque l’opinione dei due registi sull’argomento è subito dichiarata, ma la scelta di montaggio per renderla è molto diversa. In Chaplin il passaggio dalla didascalia al gregge alle persone crea una evidente similitudine (gregge/operai) attraverso l’inserimento di una inquadratura extradiegetica per cui la cesura con quella che precede e quella che segue è interpretata diventa un “come”. Nel caso di Lang l’inquadratura-similitudine non compare, tutto è reso attraverso la messinscena (direzione delle comparse, costumi, décor) a richiamare per analogia situazioni diverse. Non abbiamo più “operai come gregge di pecore” ma “operai-carcerati (soldati, robot). Ci troviamo qui nel campo semantico della metafora (nelle grammatiche di solito definita una “similitudine senza il come”). La differenza è sostanziale sotto il profilo tecnico-linguistico ma anche sotto quello “ideologico”. Chaplin dichiara esplicitamente il suo punto di vista e lo “impone” allo spettatore, Lang fa in modo che esso venga suggerito, traspaia, rimanga fluttuante, al limite subliminare, nella mente dello spettatore, come in attesa di ulteriori conferme (il robot sosia di Maria, l’operaia eroina del film). 

Nascita dell'automa spirituale
Fra la prima soluzione e la seconda non è tanto una questione di “poetica”, di maggiore o minore leggerezza del tocco registico, quanto di assunzione di un preciso rapporto con lo spettatore, il primo assertivo, autoritario, apodittico; il secondo epidittico, dimostrativo, oggetto di valutazione e interpretazione. Non si tratta di fare una valutazione etica e nemmeno estetica sulle scelte dei due registi, semplicemente si evidenzia un fatto: il linguaggio cinematografico ha in sé la capacità di condurre invariabilmente lo spettatore, più o meno direttamente, più o meno manifestamente, a prendere una posizione, ad avere un’opinione sul tema che gli viene sviluppato davanti. È questa sua capacità di attrazione a costituire il suo ambivalente, etimologico, fascino.
Si è ampiamente discusso in campo teorico se il cinema sia in grado di creare metafore o solo similitudini (accostamenti di immagini), e l’approccio qui utilizzato è già di per sé un’implicita risposta, ma non è tanto su questo problema “retorico” che una didattica dell’audiovisivo trova motivo di riflessione, quanto sui metodi che l’audiovisivo può mettere in atto per “indurre” un certo tipo di lettura del testo piuttosto che un altro. Paradossalmente, dal punto di vista realistico, appare più mimetica la scena proposta da Chaplin – con il disordinato avviarsi degli operai al lavoro nel quale l’inquadratura del gregge appare come un ironico inserto – piuttosto che quella di Lang, nella quale è prevalente l’elemento geometrico e ritmico, gli uomini sono rappresentati come una serie di automi in trance. Il paradosso è solo apparente, perché nei fatti a Lang l’illusione di realtà non interessava quanto a Chaplin, e questo non solo perché il mondo presentato dal regista inglese fosse contemporaneo mentre quello del regista tedesco fosse la rappresentazione distopica di una città del futuro. In un cinema in cui l’interesse principale è quello dell’interpretazione del mondo, più che della sua illustrazione, l’elemento narrativo è in secondo piano rispetto al messaggio ideologico (non che questo non fosse presente nel film di Chaplin, ma proprio la sua presenza nell’incipit lo pone come un fatto sul quale innestare l’elemento ludico-narrativo, come se il regista dicesse “che le cose stiano così siamo tutti d’accordo, vediamo ora quale storia possiamo farci sopra, e magari, fra una risata e l’altra, riusciamo anche a sopravvivere”). Non basta, invece, al cinema di Lang riprodurre realisticamente il mondo, anzi, il suo scopo principale è quello di interpretarlo attivamente. In questo il regista tedesco non è certo il primo e nemmeno l’unico e il fatto che sia il cinema europeo ad aprire in questa direzione, alla fine degli anni ’10, è in gran misura comprensibile in rapporto alle esperienze drammatiche vissute direttamente dall’Europa in quel decennio e dagli USA solo indirettamente. La prima guerra mondiale aveva infatti fatto scoppiare non solo un conflitto di massa, ma anche un attivismo di massa per cui tutti i vari strati della popolazione erano stati progressivamente chiamati a partecipare, in un modo o nell’altro, alle sorti della “Patria”. Per fare questo si sviluppa la moderna propaganda alla quale danno il loro contributo fondamentale tutti i media e in particolar modo i moderni media elettronici. Cinema, radio, giornali sono chiamati non tanto a informare sulle sorti del conflitto ma piuttosto a creare su di esso delle idee precise, nette, semplici. Fra queste, quella di far riconoscere chiaramente al popolo quale fosse il nemico e le ragioni per cui lo si combatteva, creare degli slogan e delle formule di facile e univoca interpretazione. In questo il cinema si rivelò un’arma molto efficace vista la capillare diffusione, il successo di pubblico e la sua facilità comunicativa. Non è un caso che, dalla fine degli anni ’10 e poi fino alla II Guerra Mondiale, il cinema sia stato uno dei media sui quali maggiormente i regimi totalitari si sono impegnati finanziariamente e ideologicamente.
Fra questi, il più importante e artisticamente produttivo, fu di certo quello che emerse dalla prima, esuberante, utopistica, sinceramente, forse ingenuamente, classista, stagione del cinema rivoluzionario russo, almeno fino all’avvento di Stalin al potere. Fra i registi di questo periodo (Pudovkin, Vertov, Kulesov ecc.) il nome sul quale ci soffermeremo è già più volte apparso, quasi come pietra di paragone, in queste pagine, ed è quello di Sergej Michailovich Ejzenstein. Perché il regista della CorazzataPotëmkin è stato uno dei teorici del cinema più prolifici e ha lasciato una serie di scritti e di riflessioni, sulla sua opera e su quella di altri che rimangono ancora oggi dei stupefacenti saggi semiotici ante litteram, su come si possa leggere un’immagine e quanto una semplice scena possa comunicare a livello conscio e subliminare. L’ampiezza culturale e la bulimia di letture che emergono dai suoi scritti costituiscono già di per sé elemento di fascino, al quale si aggiunge la straordinaria capacità di trarre riflessioni e insegnamenti dai campi più disparati dell’agire umano, passando di pensiero in pensiero, di relazione in relazione, in un progresso vorticoso dell’argomentazione, fino a rischiare, come a volta avviene, di non riuscire più a recuperare il bandolo della matassa e mancare la conclusione del discorso.
La sua idea di partenza è che il cinema possa e sappia significare molto di più di quello che semplicemente mostra. Per comprendere questo bisogna riflettere attentamente e affinare la lettura degli elementi base del suo linguaggio, quali l’inquadratura e il montaggio, meglio ancora il montaggio fra le inquadrature e il montaggio interno all’inquadratura stessa. Perché ogni inquadratura possiede in sé le possibilità che il montaggio esprime compiutamente attraverso l’azione del regista-demiurgo. Una struttura che potremmo definire frattale: “in altre parole, il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è in qualche modo un nucleo, una cellula di montaggio, che va soggetta alla legge della scissione con il crescere della tensione del conflitto. Il montaggio è un salto di qualità della composizione interna all’inquadratura” (Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, p. 13). Secondo Ejzenstejn non vi è azione senza conflitto, non vi è azione che non sviluppi una reazione. In modo analogo, non vi è pensiero senza conflitto, in quanto il pensiero promana dalla collisione di elementi che, presi autonomamente, risultano inerti. Per vedere il conflitto all’interno dell’immagine, bisogna imparare a leggerla attentamente nelle sue parti costitutive, si noterà allora che vi è un conflitto fra le direzioni grafiche che la compongono, un conflitto fra le figure geometriche, fra i volumi (dato dalla diversa intensità luminosa, dal chiaro-scuro), fra gli spazi (la profondità di campo). Allo stesso modo questi rapporti intervengono, devono essere ricercati, fra inquadratura e inquadratura, in modo tale che quello che ne deriva non sia una semplice somma, ma un surplus di significato, una immagine terza, coalescenza mentale delle due (1+1=3). Per comprendere dalle fondamenta il significato di questo discorso e valutare l’importanza basilare che il cinema sovietico dà al montaggio nell’opera di costruzione del discorso filmico, vale la pena di richiamare il celebre esperimento di Kulesov e l’effetto che dal suo ideatore ha preso il nome. Ma lasciamo direttamente alle parole del regista Pudovkin, che di quell’esperimento fu testimone, raccontare in cosa consiste: 
Prendemmo da alcuni vecchi film alcuni primi piani del celebre attore Mozzuchin e li scegliemmo statici e tali che non esprimessero alcun sentimento. Unimmo poi questi primi piani, che erano del tutto simili, con altri pezzi di pellicola in tre diverse combinazioni.Nel primo caso, il primo piano di Mozzuchin era immediatamente seguito dalla visione di un piatto di minestra sopra un tavolo; ed era cosa ovvia e sicura che l’attore guardava quella minestra. Nel secondo caso, la faccia di Mozzuchin era seguita da una bara nella quale giaceva una donna morta. Nel terzo era seguito da una bambina che giocava con un buffo giocattolo raffigurante un orsacchiotto. Quando mostrammo i risultati a un pubblico non prevenuto e totalmente ignaro del nostro segreto, ottenemmo un risultato tremendo. Il pubblico delirava di entusiasmo per la bravura dell’artista. Era colpito dall’alta pensosità con cui egli guardava la minestra, era scosso e commosso dalla profonda afflizione con cui guardava la donna morta, era ammirato dal luminoso sorriso con cui guardava la bambina. Ma noi sapevamo che in tutti e tre i casi la faccia era la stessa. 
(Pudovkin, 1928)
 
Una riproduzione d'epoca dell'esperimento di Kuleshov (e come lo descrive Hitchcock!)
L’associazione di due immagini può produrre un senso diverso da quella che ognuna in origine ha, anzi, ciascuna immagine non rappresenta che se stessa, è in rapporto con quella a cui si accompagna che acquista un significato. Se Mozzuchin appare di volta in volta affamato, triste o felice è perché il suo volto, il suo primo piano impassibile, è aperto alle più diverse interpretazioni, che solo l’immagine accoppiata doterà di un senso piuttosto che un di altro. Il montaggio, questo accoppiamento, si caratterizzerà così innanzitutto per la sua funzione di produrre senso attraverso il coinvolgimento attivo dello spettatore: il montaggio si crea nella mente dello spettatore. Gli operai di Chaplin sono un gregge di pecoroni, così come il dittatore Kerenskji, con il suo atteggiarsi, i suoi stivali e i suoi guanti di pelle lucida, davanti alle porte regali dello zar non è altro che un pavone, e nemmeno un pavone vero, ma meccanico, un burattino ruffiano nelle mani dell’aristocrazia liberticida russa (Ottobre, Ejzenstejn, 1928).

Kerenskij alle porte dello Tzar: pavone + uomo = "pavoneggiarsi" (Ejzenstejn, Ottobre, 1928).
Potremmo definire ogni inquadratura come un sostantivo, mentre una coppia di inquadrature crea un verbo, un’azione. In questo senso Ejzenstejn vede la corrispondenza fra il montaggio cinematografico e gli ideogrammi dell’estremo oriente dove, se mettiamo insieme l’immagine che riproduce stilizzato un occhio (“occhio”, “vista”) e quella che riproduce una goccia (“pioggia”), otteniamo il verbo “piangere”.   Senza spostarci troppo dalla nostra esperienza quotidiana, è quanto mettiamo sempre più in pratica nell’odierna comunicazione postverbale, fatta di meme e emoticon:
Quella che abbiamo visto essere la funzione semantica del montaggio usata ironicamente da Chaplin nell’incipit di Tempi moderni è la stessa che aveva utilizzato in più occasioni Ejzenstejn (e non solo lui, ovviamente) in Sciopero (1925), fra le quali la celebre e drammatica strage finale degli operai a opera dell’esercito alternata a crude immagini del macello di un manzo.
Ma siamo qui a uno stadio ancora elementare delle possibilità offerte dal montaggio. Come abbiamo già detto per Chaplin, in questi casi il senso è apertamente diretto dalla sequenza. Un risultato più alto si ottiene quando il conflitto, lo shock che produce pensiero è meno evidente, enfatizzato, ma sorge da una serie di attrazioni orientate “verso un determinato effetto tematico finale” (Ejzenstejn). Attrazione e conflitto non sono termini antitetici e incongruenti ma complementari, per non dire supplementari, nel discorso eisensteiniano. 

Qualche esempio:
le gambe degli operai / le ciminiere: attrazione formale: sono le gambe, il corpo degli operai che fa funzionare le fabbriche (Sciopero, 1925);la scalinata con i cittadini in fuga / l’aggressione dei soldati: contrasto di linee e di movimento; oppressi e oppressori (La corazzata Potëmkin, 1925).
Quindi il conflitto non riguarda solo il rapporto fra piani, ma è anche per Ejzenstejn uno “stadio dell’inquadratura”: il conflitto delle direzioni grafiche (delle linee); il conflitto dei piani (tra loro); il conflitto dei volumi; il conflitto delle masse (dei volumi sottoposti a diversa intensità luminosa); il conflitto degli spazi ecc.I conflitti che richiedono soltanto un ulteriore impulso di intensità per scindersi in coppie di pezzi antagonisti. Primo piano e profondità di campo. Pezzi con orientamento grafico divergente. Pezzi a dominante volumetrica e pezzi a dominante piana. Pezzi scuri e chiari… ecc.
In altre parole, il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è in qualche modo un nucleo, una cellula di montaggio, che va soggetta alla legge della scissione con il crescere della tensione del conflitto. Il montaggio è un salto di qualità della composizione interna all’inquadratura.
Soffermiamoci ora sulla scena di Kerenskji che sale dallo zar, lasciandola spiegare allo stesso Ejzenstejn (Drammaturgia della forma cinematografica, in Il Montaggio, pp. 35-36), che prosegue poi con un altro esempio, sempre dallo stesso film, quello delle "Divinità":

Esempio 1. Ottobre
L’ascesa di Kerenskij al potere e alla dittatura dopo i giorni del luglio 1917.
L’effetto satirico viene ottenuto montando insieme didascalie di cariche (“dittatore”, “generalissimo”, “Ministro della marina e dell’esercito” ecc.) sempre più alte con 5-6 pezzi della scala del Palazzo d’Inverno su cui Kerenskij percorre ogni volta sempre lo stesso tratto.
Qui il conflitto tra il continuare a salire le scale e il rimanere sempre allo stesso punto produce una risultante intellettuale: il discredito di quei titoli sempre più altisonanti in rapporto alla nullità di Kerenskij agli occhi di Ejzenstejn e della vulgata bolscevica. Abbiamo il contrappunto tra un’idea convenzionale espressa verbalmente e una rappresentazione visiva di un caso particolare di inadeguatezza nei confronti di quella idea. Il disaccordo fra questi due fattori produce una risoluzione puramente intellettuale a scapito di quel caso particolare. Stessa soluzione è quella adottata subito dopo quando le velleità di Kerenskij vengono illustrate attraverso il raccordo fra le statue che porgono la corona d’alloro, inquadrate dal basso, e la testa di Kerenskij, inquadrata dall’alto a significare la sua incoronazione. L’effetto di ripetizione già adottato per descrivere l’ascesa del “lacchè dello Zar” è ripreso con l’apertura delle massicce porte del potere zarista i cui battenti si aprono più volte, con un falso raccordo, a far entrare il burattino che si pavoneggia. Da notare che il passaggio al pavone meccanico avviene attraverso un raccordo formale fra la testa dal profilo aquilino di uno degli ufficiali che accompagna Kerenskij al collo e testa del pavone meccanico con il becco prominente.
 [per un’analisi approfondita di questa sequenza si veda anche: Rondolino-Tomasi, Manuale del film, pp. 242-246]

Esempio 2. Ottobre
Konrilov marciò contro Pietrogrado con la parola d’ordine “in nome di Dio e della patria”.
Tentammo qui di usare la rappresentazione per scopi antireligiosi. Montammo insieme un certo numero di immagini rappresentanti la divinità, da un pomposo Cristo barocco fino a un idolo degli eschimesi. Qui il conflitto si svolge tra il concetto di “divinità” e la sua simbolizzazione. Mentre nell’immagine del Cristo barocco concetto e raffigurazione appaiono in completo accordo, i due elementi si discostano sempre più ad ogni ulteriore immagine. Si mantiene il concetto di “Dio” e lo si rappresenta con immagini che non corrispondono alla nostra intuizione di tale concetto. La conseguenza consiste nel produrre conclusioni antireligiose circa la vera natura della divinità. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una conclusione puramente intellettuale risultante dal conflitto tra un concetto dato e il suo processo di graduale discredito tendenzioso tramite una pura visualizzazione.

Tutte queste soluzioni stilistico-formali ci conducono all’estremo opposto rispetto al naturalismo, alla trasparenza, del cinema griffithiano e in genere occidentale, ma al contempo ci rendono evidente come non manchino in quelle una base narrativa, come in questo non mancano soluzioni espressive anche marcate, come esemplificato dai raccordi sull’asse nello stesso Griffith e in Colazione da Tiffany, oppure dall’associazione per similitudine in Chaplin. Non si tratta insomma di decidere o propendere per una narrazione denotata piuttosto che per una connotata, semmai di comprendere che il testo cinematografico non è mai neutro, che denotazione e connotazione sono sempre presenti in esso e la differenza si pone nel rapporto di forza fra le due, nella scelta registica di far prevalere l’uno piuttosto che l’altro. Da non sottovalutare inoltre la distanza temporale e culturale con la quale oggi valutiamo gli esempi fin qui fatti: quello che all’epoca poteva risultare naturalistico (o viceversa) oggi non è detto che appaia tale. Bordwell porta in questo senso un esempio illuminante quando evidenzia come all’epoca la recitazione di Marlon Brando in Fronte del porto fosse stata acclamata per il suo crudo realismo mentre a noi oggi “appare deliberato, sopra le righe e poco realistico” (Bordwell, Cinema come arte, p. 243).  Bresson coglie perfettamente la questione quando nelle sue Note sul cinematografo osserva: “I film di CINEMA sono documenti storici da riporre negli archivi: come recitavano nel 19.., il signor X, la signorina Y” (R. Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia,  2008 [1975], p. 14. “CINEMA” scritto tutto in lettere maiuscole è il modo sprezzante con cui Bresson identifica tutti quei film che scimmiottano il teatro, estremo opposto di quello che dovrebbe essere il “cinematografo”).
Ejzenstejn propende dunque per un cinema non realistico, ma iper-realistico (o sur-realistico), nel senso che non si accontenta tanto e solo di mostrare e raccontare le cose ma vuole anche che esse pensino, producano una scintilla di pensiero che esploda nella testa dello spettatore, aprendola a una visione non puramente mimetica ma intellettuale: “il cinema rivoluzionario sovietico spaccherà i crani” scriveva un giovane Ejzenstejn e non lo intendeva in senso metaforico.Quindi è il montaggio intellettuale il vertice più alto delle possibilità del linguaggio cinematografico, al di sotto di questo altre forme di montaggio, da quelle più semplici, legate alla lunghezza fisica (metri di pellicola) delle inquadrature (montaggio metrico, montaggio ritmico), attraverso quelle in cui entrano in azione elementi formali (montaggio tonale: la luce; montaggio armonico: linee e volumi). 
Riporto qui il link ad alcune brevi esemplificazioni scovate in rete, alcune con esempi tratti da film più recenti. Non sono del tutto d'accordo con esse, ma può essere comunque utile vederle e valutarle, almeno come prima introduzione (N.B. "overtone editing" corrisponde a "montaggio armonico", anche se non in tutti gli esempi appare chiaramente).
Questo il migliore, anche se la qualità video è pessima: Five metods (1)
Per gli altri: Five metods (2) e Five metods (3)
 

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