Gif animato di Andrea Princivalli - Studio Manolibera www.studiomanolibera.it

venerdì 9 ottobre 2020

2.4 Cinema-pensiero: la scrematrice e lo spot

 
Un cinema che pensa? Un cinema che produce pensiero? Sembra di essere entrati in una qualche saga fantascientifica o fantapolitica. In realtà la produttività della riflessione di Ejzenstejn va proprio nel senso di cercare di capire le dinamiche di attrazione e di omologazione che il cinema riesce a mettere in atto sugli spettatori. Come può avvenire tutto questo? Forse perché il cinema ripropone delle formule compositive capaci di attivare il pensiero perché prodotte nello stesso modo con cui il nostro cervello “produce” pensiero, ossia attraverso lo scontro fortuito di singole immagini mentali (ricordiamolo, siamo negli anni in cui Joyce pubblica l’Ulisse e poi Finnegans wake, e Vygotskij conduce le ricerche che portarono alla pubblicazione postuma di Pensiero e linguaggio). Il risultato è che il cinema intellettuale può raggiungere vertici paragonabili a quelli dell’estasi mistica, per cui il corpo/film trascende se stesso e produce qualcosa di non direttamente appartenente a sé: quell’immagine extradiegetica che lo riassume e che si trasferisce nella mente dello spettatore, un’immagine-pensiero, per dirla con Deleuze. In questo sussiste il pathos, l’immagine patetica per Ejzenstein. E in questo pathos essa trova la sua grandezza e il suo limite, come nel termine “retorica”, che indica per noi sia l’apice dell’argomentazione intellettuale, sia lo scadimento di significato dato dal risaputo. Eppure il pathos si produce proprio da questo lavorio continuo di cesellamento e raffinamento della retorica stessa, e come tale non ha limiti di invenzione ma non sopporta il déjà-vu.
Ecco perché la lezione eisensteiniana è stata utile e attiva nel corso del tempo ed è valida e rintracciabile ancora oggi, tanto nei suoi prodotti più alti che in quelli più bassi, perché nella sua tensione teorica fotografa l’ossessione dell’epoca, definendo i modi e le possibilità che il cinema aveva di creare “un pensiero unico”, un automa spirituale per-le / delle masse. Un solo film/pensiero per milioni di persone: la propaganda.

Cinema e propaganda
Le dittature di molti Paesi hanno utilizzato gli organi d’informazione e i media di intrattenimento per creare consenso. Lenin, che considerava il cinema “la più importante di tutte le arti”, sostenne fin da subito il cinematografo e la nascita del cinema dei soviet. A Stalin piaceva guardare i film, soprattutto quelli che mostravano la “sua” Russia come la voleva lui, arrivando al paradosso di riconoscerla non nella realtà ma attraverso i film stalinisti. “Una bugia ripetuta un milione di volte diventa una verità” era solito ripetere Goebbels, ideologo e ministro della propaganda di Hitler. È noto che anche in Italia il regime fascista diede un forte impulso alla rinascita di un cinema nazionale. Negli anni trenta fondò a Roma Cinecittà, l'Istituto Luce e la Scuola Nazionale di Cinema (oggi Centro Sperimentale di Cinematografia), si profuse a far diffondere film che facessero dimenticare miseria morale e difficoltà materiali (le commedie d’ambiente borghese, dette “dei telefoni bianchi”), a informare sulle “magnifiche sorti” del costituendo Impero e sulle valorose azioni dei nostri soldati (i cinegiornali della Settimana Incom), salvo censurare nel frattempo i film provenienti da Hollywood.
Si sa quanto Hollywood stessa debba all’emigrazione politica da questi Paesi. Furono molti i registi tedeschi che importarono in Germania l’alto know-how europeo, le atmosfere del cinema impressionista, il gusto per la commedia brillante. Fritz Lang divenne il grande regista americano di genere che conosciamo grazie all’interessamento di Hitler e Goebbels. Quest’ultimo lo chiamò a colloquio dopo il successo (ma anche le censure) dei suoi film. “Vuole avere l’onore di diventare il regista ufficiale del Terzo Reich?” – “Ne… Ne sarei lusingato” risponde Lang, e il giorno dopo è già con la valigia a Parigi, solo. La moglie, la co-sceneggiatrice Thea von Harbou, con la quale aveva scritto tanti film di successo, aveva scelto invece di restare, di seguire il Führer. Non si poteva darle torto: dal punto di vista organizzativo e produttivo, le case di produzione tedesche che si erano consociate nell’UFA facevano impressione anche a Hollywood. C’è chi come Bazin sostiene che la guerra contro i tedeschi si combattè e fu vinta dagli americani grazie a Hollywood, che sconfisse la macchina propagandistica tedesca con i suoi film, che incitavano a prendere posizione contro chi assale popolazioni libere e le riduce in schiavitù, che incitavano ad uscire dall’isolazionismo, a vendicare Pearl Arbour. Forse il mito ha messo in secondo piano il forte impianto interventista di un film come Casablanca (1942) e di tanti altri film prodotti e distribuiti dalla “fabbrica dei sogni” in tutto il mondo. Bazin arriva a sostenere che Hitler aveva virtualmente perso fin da subito la partita per un errore fatale d’immagine: aver “rubato” i baffi alla maschera più celebre del pianeta, Charlot, e quando Charlie Chaplin volle ripigliarseli, vestendo i panni del barbiere (poteva scegliere un mestiere diverso?) ebreo, per l’immagine di Hitler fu la fine, ridotta a parodia di se stessa (Il grande dittatore è del 1939). C’è poi chi, come Kracauer , sulla base della cinematografia prodotta da un Paese, ha cercato di ricostruirne il pensiero sottostante, l’ideologia ancora inconscia ma covata come fuoco sotto la cenere (Da Caligari a hitler: una storia psicologica del cinema tedesco, 1947). Quali sono gli “eroi” del cinema tedesco degli anni ’20? Caligari, Mabuse, Nosferatu, Faust… Sono tutte figure di potenti illusionisti e plagiatori in un mondo che fatica a tenersi in piedi (il paesaggio è vacillante e sconnesso), Bene e Male si fronteggiano in una lotta accesa e violenta, manichea (i forti contrasti di luce e ombra), nella quale il secondo sembra avere la meglio e non ci si può fidare più di nessuno perché il mostro può essere ovunque, visto che il mostro è in noi (M, il mostro di Dusseldorf, Lang, 1931).

In questo sforzo incredibile e sublime di Ejzenstein di ricondurre il linguaggio filmico nell’alveo dei linguaggi naturali si percepisce il suo imperioso tentativo di dare una formula sempre valida di analisi dei fenomeni umani giustificata dal loro essere o meno in sintonia con la “meccanica” dei fenomeni naturali. Il regista russo fonde insieme natura e politica, etica ed estetica, tutte ricondotte all’interno della logica post hegeliana del marxismo-leninismo. Quello scontro continuo fra tesi (poveri) e antitesi (ricchi) (vedi la sua lettura di Griffith proposta in precedenza) si doveva risolvere nella sintesi marxista della società senza classi, in questa terzità che superava il conflitto di classe, come il pensiero nuovo emerge dallo scontro di due idee precedenti, come l’immagine nuova, patetica, estatica esplode dal confronto fra due immagini delle quali essa non è la somma ma il prodotto.
Anche quando il suo rapporto con l’intellighenzia stalinista si era deteriorato e la sua figura di intellettuale e regista era ormai compromessa nel difficile tentativo di mantenere vivo lo sperimentalismo rivoluzionario nel mediocre panorama dell’imperante realismo staliniano, Ejzenstein non perse la fiducia di poter operare attivamente per “indicare la via” alle masse sovietizzate, attraverso un cinema di forte impatto visivo ed emotivo più che realistico-narrativo, ma i suoi film furono censurati dal regime e i più non arrivarono nemmeno nelle sale, restarono sulla carta o rimasero incompiuti (Il prato di Bezin) o “congelati” per anni, come Il vecchio e il nuovo (La linea generale, 1926-29), dal quale proponiamo l’analisi di una delle sequenze per noi più interessanti per comprendere la produttività del suo lascito, anche guidati dallo stesso Ejzenstejn (La centrifuga e il calice del Graal, in La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1992, p. 41 e sgg.).


La centrifuga 



La sequenza è nota con il titolo di La centrifuga. La protagonista del film, Marfa, una contadina della povera campagna russa, è una fervida sostenitrice del progresso e del valore del lavoro cooperativo. Ha convinto altri contadini, seppur scettici, a indebitarsi per acquistare una centrifuga che dovrebbe separare il latte dalla panna per fare il burro con mezzi moderni, veloci ed economici. La scrematrice è arrivata e nella stalla la comunità retrograda dei contadini si incontra per sperimentarne il funzionamento…
La centrifuga all’inizio è un oggetto misterioso. Avvolta sotto un lenzuolo, è al centro della povera stanza dai soffitti bassi; contadini, contadine, braccianti, le stanno intorno scettici e incuriositi (le didascalie chiedono alternativamente: "sarà una fregatura?" - "sarà una speranza di futuro?"). Con gesto solenne (sottolineato da inquadrature ripetute, falsi raccordi, dell’atto), il funzionario a capo della comunità toglie il lenzuolo. Una luce vibrante balugina sui volti degli spettatori, la scrematrice è presentata dapprima per frammenti sfuocati, poi dettagli a fuoco che ne intensificano la straordinarietà. Hanno di fronte a loro un oggetto magico o una patacca? Incredulità e fascinazione illuminano quei volti, ritratti da Sacra Famiglia. Marfa è fiduciosa, riempie con secchi di latte la cavità della centrifuga; dapprima il funzionario si prova nello sforzo, poi un giovane aitante, dai muscoli ben disegnati, lo sostituisce e con vigore comincia a girare la manovella. La manovella gira, ingranaggi sconosciuti entrano in funzione, nella stanza la luce continua a baluginare dalla scrematrice, come raggi di sole dentro a un acquario. La contadina la scruta amorevole. Le braccia faticano sulla manovella, il latte gorgoglia frustato nella centrifuga, i rubinetti a canne arcuate, grazie ai movimenti ravvicinati della mdp, sembrano guardarsi intorno, come becchi aquilini. Avverrà il miracolo? Il latte si scremerà? La sequenza di volti, luce, movimento si fa sempre più vorticosa, l’attesa spasmodica. La contadina guarda con sempre maggior apprensione la centrifuga, lei risponde con i suoi becchi allungati in primo piano. Finalmente qualcosa gocciola fuori da queste canne ricurve, indugia prima di esplodere al calor bianco. "Si è condensato! Il latte si è condensato!" L’eccitazione trattenuta esplode nella gioia dei volti, la contadina si fa sotto, si bagna le mani, si schizza il volto di quel denso biancore, gronda di piacere e gioia. Le fontane di latte si fanno fontane d’acqua sgorganti, zampillanti in mille direzioni. Dieci, cento, mille fontane, tanti quanti saranno i litri di latte che verrà condensato, il burro che si potrà produrre, la ricchezza e il progresso della cooperativa che si andrà sempre più ingrandendo… È il sogno che si avvera, l’avvento di un’era nuova fatta di prosperità, pace, progresso per il popolo dei soviet e di tutti quelli che lo seguiranno.

Spunti di analisi:
  • il passaggio dalla sequenza precedente, da esterno a interno, è reso senza soluzione di continuità attraverso la ripetizione dell’inquadratura dello stesso volto in primo piano (un contadino che guarda con sospetto: prima il pope che li ha illusi poi la misteriosa scrematrice)
  • la funzione delle ripetizioni; i falsi raccordi
  • la funzione della luce: la centrifuga è un oggetto magico, risplende di luce propria e abbaglia, affascina gli spettatori / pubblico
  • l’intensità dei volti, ripresi come quelli di una sacra famiglia (cfr. Pontormo)
  • il rapporto fra la centrifuga e la contadina; il mascolino e il feminino
  • l’accelerazione climatica del ritmo delle inquadrature
  • dal centripeto (tutti gli sguardi rivolti al centro) al centrifugo (l’esplosione)
  • dall’esplosione di latte a quella delle fontane (estasi)
  • dal liquido / materia, al numero / concetto
Importa far notare che la sequenza della scrematrice è preceduta da quella della processione per la pioggia: i contadini, stremati dalla siccità, si affidano ai buoni uffici del pope perché interceda presso Dio per portare ristoro agli uomini, alle bestie, ai campi. Tutta una processione di contadini con i loro animali segue il pope e il sagrestano e gli stendardi con le immagini sacre. La polvere e il caldo si accumulano, una nuvola scura si avvicina, il vento soffia, la processione si ferma e si prostra, qualche goccia cade… ma poi nulla, la pioggia invocata non si manifesta. Il climax, l’eccitazione collettiva, la fede per il soprannaturale rimane delusa. Quella che sembrava poter diventare la manifestazione concreta della potenza divina, la sintesi fra il desiderio dei contadini e la casta sacerdotale, si risolve nella storica contrapposizione fra il popolo e il sacerdote, fra mistificati e mistificatori. Ben diverso il finale della sequenza della scrematrice. Non c’è inganno né mistificazione nelle leggi della natura e nella scienza che le applica, bensì quel mondo nuovo che si chiama progresso, tecnologia, suddivisione scientifica del lavoro, cooperazione, emancipazione dall’ignoranza, dalla povertà, dalle ataviche superstizioni, dal sospetto, dalle divisioni sociali. Al vecchio mondo si sostituisce il nuovo, quello che supera la dicotomia di tesi e antitesi (ricchi vs poveri, padroni vs lavoratori) nella sintesi socialista.
Nella sequenza della scrematrice assistiamo a una “cerimonia” ambivalente, in cui umano e divino, sacro e profano si confondono fino a divenire indiscernibili. Siamo al contempo in una povera isba e all’interno di un presepe; di fronte a un ingranaggio e a un Messia; testimoni di un fatto scientifico e di un prodigio; in estasi per la manifestazione del divino e nella frenesia di un’orgia. Questa indiscernibilità ed estrema ambiguità non solo è cercata da Ejzenstejn ma è proprio in essa che la sintesi può attuarsi, cioè il passaggio dal separato, dal distinto, all’indistinto attraverso la transustanziazione del divino nei corpi e viceversa. È l’estasi, nel suo significato etimologico: “uscita da sé” (ekstasis). Come il mistico in estasi si unisce, uscendo dal proprio corpo, nell’amore di Dio (le cosiddette “nozze mistiche”), così ciascuno di noi conosce l’estasi unendosi con il proprio corpo a un altro corpo, nel coito, la “piccola morte”, in cui l’io è dimentico di sé, nell’orgasmo dell’amore terreno, l’inseminazione (maschile) dell’ambiente (femminile) circostante pronto a riceverlo. 
La stessa cosa si produce nel film. La centrifuga stessa, con il suo movimento a spirale, corrispettivo della crescita organica, si contrappone ai vettori centripeti degli sguardi degli astanti. L’aumento dell’energia centrifuga contrasta con l’aumento di questa attrazione, sottolineata dal ritmo sempre più vorticoso del montaggio e dalla luce che promana dalla centrifuga che si fa sempre più intensa sui volti dei contadini-testimoni del prodigio, fino a un magico baluginare. Finché il climax raggiunge il suo apice e la panna esce dai becchi/falli e si sparge sulle mani, sugli abiti, in faccia a Marfa. Lo sforzo del giovane aitante ha ottenuto il suo risultato. L’orgasmo si manifesta su tutti e tutte, la panna zampillante si trasforma in fontane d’acqua. Ecco l’estasi, l’uscita da sé dell’immagine: quelle fontane sono la trasformazione estatica, extradiegetica, del film. Quello che il successo della scrematrice ha decretato è sintetizzato in queste immagini di abbondanza, gioiose e vitali, quanto l’acqua può rappresentare. L’emergere degli zampilli d’acqua rispetto a quelli della panna è il momento in cui questa estasi, transustanziazione avviene a livello del film. Dalle fontane che si moltiplicano al moltiplicarsi dei numeri il passaggio è breve: l’abbondanza si quantifica nel crescere matematico dei membri della cooperativa. E non si dimentichi che prima questo “miracolo”, durante la processione per la pioggia, non si è avverato, era rimasto deluso. 
Il processo messo in atto nei cinque minuti di cui si compone la sequenza analizzata è sempre valido ed è quello che caratterizza la capacità attrattiva del linguaggio filmico, il suo essere uno straordinario strumento per influenzare le idee e i comportamenti del pubblico. Non è un caso che i cinegiornali nascano proprio con la rivoluzione bolscevica: la kinopravda di Vertov aveva proprio lo scopo di informare l’enorme massa di abitanti delle campagne, perlopiù analfabeti, della rivoluzione sociale in atto, della quale erano ignari o comunque diffidenti visto che era stata progettata e attuata da una minoranza di intellettuali e operai dei pochi centri industrializzati (in pratica Mosca e San Pietroburgo) della retriva Russia zarista. Attraverso la “lingua universale” del cinema si poteva raggiungere ogni angolo del paese e spiegare (leggi: propagandare) il nuovo rispetto al vecchio. Molto più veloce efficace ed economico inviare ovunque, come si fece, camion attrezzati con proiettore, lenzuolo e pellicola, piuttosto che affidarsi al potere comunicativo di araldi, gazzette, comunicati ufficiali per contrastare le azioni di retroguardia dell’ancien régime

Persuasione di massa
I cinque minuti della sequenza della scrematrice sono, per l’epoca, il corrispettivo degli odierni spot pubblicitari e sfruttano empiricamente le regole basilari della persuasione di massa: il prodotto pubblicizzato è qualcosa che non si è mai visto prima, fa veri e propri miracoli, mi cambia la vita in meglio donandomi la felicità. Ossia la merce deve essere resa unica, miracolosa, erotica. Qual è in fin dei conti il messaggio mediato dalla contadina Marfa, da questa donna, alla comunità? Che con l’acquisto della centrifuga si potrà trovare il benessere e la felicità, quello che ciascuno di noi viene indotto a credere in relazione a qualsiasi prodotto acquistabile oggi, che si tratti di un docciaschiuma, un’automobile, un pannolino, un piano tariffario del telefono.

Per (di-)mostrare questa dinamica si può prendere come esempio qualche spot pubblicitario, dallo storico Mastro Lindo, il genio del pulito, con tutte le sue varianti (per esempio Cenerentola-Chif), al più nostrano Mulino Bianco
Il mio “preferito” è quello di un detersivo per lavare gli indumenti neri – il colore non colore per eccellenza – per evitare che essi sbiadiscano (Spuma di Sciampagna Nero Puro). In un’atmosfera ovattata e monocromatica, in cui elementi ortogonali e anonimi si inseriscono in un’atmosfera al contempo rarefatta e impersonale, una bella ragazza, con lunghi capelli neri e vestita di nero, scrive nel proprio diario. Caro diario… e si lamenta di come i propri capi neri, col lavaggio, si ingrigiscano. Intorno a lei tutto nel frattempo ingrigisce: il suo maglione, perfino la sua scrittura, con la stilografica che si va esaurendo, anche la luce si fa più cupa. Un demone del grigio invade lo spazio, una cascata d’acqua fa colare le parole dalle pagine del diario: è la catastrofe, il diluvio. Ma poi, scrive, è arrivato Spuma di Sciampagna Nero Puro: lo spazio del fondale e tutto si “ravviva”, la luce si fa più intensa, i grigi tornano neri, il sereno e poi la gioia si dipinge sul volto della ragazza. Segue lo slogan a chiudere. 


Notiamo che nella prima parte dello spot il climax è discendente, tutto volge al grigiore man mano che la ragazza confida al suo diario la sofferenza che la coglie. Intanto non sfugga la situazione paradossale e iperbolica: quello che una ragazza scrive nel proprio diario – con la classica, per queste situazioni di intimità, stilografica – sono generalmente le frustrazioni quotidiane, le delusioni e le gioie dei rapporti umani, in particolare i tumulti del cuore. Ecco, i propri capi neri, quasi fossero amici più che cari a cui ha associato un moto d’amore, diventano i protagonisti di questa confessione. La saldatura fra la sofferenza erotica e il prodotto che poi la risolverà ha avuto luogo. La situazione degenera fino al punto che una brevissima inquadratura in dettaglio vede trasformato il maglione nero che indossa in un maglione grigio. Segue altrettanto breve l’inquadratura di un vortice d’acqua che fa colare sulla pagina le parole scritte con la stilografica. Cosa è successo? Al culmine della catastrofe l’immagine è “uscita da sé”, mostrandoci uno spazio-tempo extradiegetico volto a sintetizzare le cause del procurato dramma. Stasi e nuova velocissima inquadratura con il dettaglio del maglione che indossa, ancora grigio. “Poi, ho scoperto…” Ecco che la parabola ora ascendente ha inizio e il prodotto viene presentato associando il nome dettato dalla voce over e la comparsa sullo sfondo soffuso della stanza della analoga scritta luminosa che aleggia oltre lo schermo: il magico salvatore si sta manifestando, prima con la scritta bianca del font che lo caratterizza, poi attraverso i dissolvenze incrociate dei dettagli del flacone che si ricompongono, dando vita al flacone stesso attraverso la sua rotazione (ricordate la rotazione dei dettagli della scrematrice appena prima del “miracolo”?). Siamo condotti in uno spazio altro rispetto a quello della stanza, del tutto disomogeneo ad essa, in cui la presenza del flacone è totale, affiancato da una lavagna su cui con il gesso è scritto lo slogan, recitato dalla voce over, sempre più eccitata. Insomma il corrispettivo delle fontane e dei numeri che si susseguivano nello spot della scrematrice. E l’inversione della situazione di partenza è resa ancor più evidente dalla scelta cromatica: quello che prima era scritto in un nero che si sbiadiva, poi si è tornato colorare ed ora al foglio bianco si è sostituita una lavagna nera e all’inchiostro nero la scritta con il gesso bianco. Al capo della comunità che infine gioioso si scappellava a congratularsi per la scrematrice, corrisponde qui l’immagine finale della ragazza che gioisce. Attraverso l’immagine extradiegetica della cascata e quella, altrettanto subliminare, della scritta luminosa (entrambe queste immagini, pur evidenti, vengono recepite ogni volta solo dopo due-tre passaggi dello spot, sarà un caso?), avviene il “miracolo” che porta la felicità. Quello che per essere detto agli ignoranti, analfabeti contadini neofiti del cinema aveva necessitato di una lunga preparazione e climax, ai teledipendenti dei nostri giorni è detto in pochi secondi, 15 (contro i 5 minuti di Ejzenstejn): fra i due, volendo storicizzare i passaggi compiuti dalle strategie pubblicitarie, le réclame degli anni '50-'70 da un paio di minuti di Carosello, con il loro codino finale. “E poi tutti a nanna”. (Per rendere evidente la pervasività di questi argomenti nel ‘900, consiglio la lettura di un grande classico sulla pubblicità, Mitologie di Roland Barthes, in particolare, visto che si è parlato di un detersivo, quei brevi articoli che dissacrano i miti dell’igiene e del “pulito profondo”. Dello stesso autore è poi, interessantissima, l’analisi della scena di incoronazione di Ivan Groznji, nell’omonimo film citato di Ejzenstein, analisi che apre alle categorie illuminanti dell’Ovvio e dell’Ottuso (vedi l’opera omonima).

2 commenti:

  1. Il cinema d’animazione italiano di propaganda

    Vista la discussione all’interno del post riguardante il cinema come strumento di propaganda e visto l’approfondimento sui cortometraggi animati propagandistici prodotti da Walt Disney e Warner Bros durante la Seconda Guerra Mondiale, vorrei proporre un ulteriore approfondimento sul cinema d’animazione di propaganda, focalizzandomi sul caso italiano e in particolare su Luigi Liberio Pensuti, esponente di spicco nel mondo dell’animazione durante il periodo del regime fascista.

    Nonostante i primi due lungometraggi animati italiani arrivarono solo nel 1949, con l’uscita di I fratelli Dinamite di Nino Pagot e di La rosa di Bagdad di Anton Gino Domenighini, è dagli anni ’10 che la cinematografia italiana comincia a interessarsi all’animazione. Esemplari sono, in questo caso, le sequenze animate in stop-motion presenti nel mediometraggio del 1917 La guerra ed il sogno di Momi, diretto da Segundo de Chomón e scritto da Giovanni Pastrone, due tra le figure chiave del cinema italiano delle origini. Nel film il protagonista Momi, un bambino con il padre ufficiale dell’esercito italiano impegnato nelle battaglie con l’Impero Austro-Ungarico durante la Prima Guerra Mondiale, sogna i propri soldatini giocattolo che prendono vita e combattono contro dei pupazzi nemici, sui quali alla fine trionfano. L’animazione, anche in Italia, fin dai suoi primi impieghi, viene quindi utilizzata a fini propagandistici, in questo caso per sollevare gli animi dei cittadini italiani e darli speranze sugli esiti della guerra.

    Negli anni successivi il settore dell’animazione, occupato nel tentativo di creare una “scuola” nazionale, tra ricerche di uno stile proprio e identificativo e influenze provenienti dalla Disney, e il regime fascista incrociarono i loro percorsi; basti pensare al progetto, rimasto poi incompiuto, di Guido Presepi su un lungometraggio, totalmente animato, riguardante la vita di Benito Mussolini. Figura chiave in questo periodo è Luigi Pensuti, inizialmente scenografo e costumista per il teatro di marionette, poi animatore stop-motion e infine regista di film d’animazione tradizionale. Pensuti realizza i suoi primi cortometraggi animati tra il 1928 e il 1931 in collaborazione col poeta Trilussa; in questo arco di tempo vengono prodotti otto corti basati sulle poesie del poeta romano, i quali vennero presentati al Miculpop, che ritirò e distrusse le copie dei film. Non solo Trilussa era malvisto dal regime, ma lo stesso Pensuti, che volle firmarsi Luigi Liberio Pensuti durante gli anni trascorsi a lavorare per l’Istituto Luce, non era figura ben vista; ciononostante, viste le indubbie qualità di Pensuti, venne spesso utilizzato per la realizzazione di film a scopi didattici e propagandistici.
    (continua)

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  2. (continua)
    Fu lo stesso Benito Mussolini a convocare Luigi Pensuti nel 1932 per la realizzazione di alcuni corti animati educativi, realizzati nel corso degli anni ’30, che accompagnassero le campagne antitubercolari indette dal regime in quegli anni, tra i quali Il pericolo pubblico n. 1 e Crociato 900, entrambi realizzati nel 1938. Nel primo corto vengono spiegati i metodi di trasmissione della tubercolosi, gli effetti che essa ha sul corpo umano e alcune regole di igiene per la prevenzione dalla malattia, attraverso l’uso della tecnica mista, con sequenze in live-action dirette da Ugo Amadoro. Il corto inizia in una classe di scuola elementare, dove un maestro espone ai suoi alunni cosa sia la tubercolosi, mostrandola al microscopio a uno dei bambini; i bacilli di Koch, grazie all’uso di una speciale lente, si animano, diventando dei piccoli mostriciattoli che invadono i cieli e le strade, per poi attaccare il corpo umano dall’interno, con immagini d’effetto che ben promuovono l’idea di una guerra contro la tubercolosi. Il secondo corto porta avanti questa idea con ancora più efficacia, nel quale i francobolli venduti per l’ottava campagna antitubercolare, che presentavano uno scudo crociato, prendono vita e combattono, con spada e scudo, una lunga e violenta battaglia contro un esercito di bacilli di Koch. I francobolli, nati dai petali degli alberi primaverili come segno di rinascita, girano per le strade, fermandosi porta a porta, raccogliendo soldi dai cittadini per dispensari e posti letto, e vengono poi mostrati i dati generali delle 8 campagne antitubercolari; ciò serviva a incentivare non solo l’acquisto dei reali francobolli ma anche un senso di solidarietà nazionale tra gli spettatori. Il corto si chiude infine con l’immagine di un imponente e intimidatorio fascio littorio ripreso dal basso, per ribadire la potenza e la supremazia del regime fascista.

    Durante la Seconda Guerra Mondiale, più precisamente tra il 1940 e il 1942, Pensuti lavora su alcuni cortometraggi di carattere più propriamente politico, come Ahi Hitler!, che vede protagonista Hitler che tenta di corteggiare la Marianna francese con l’aiuto di un Mussolini suonatore di fisarmonica, e Il Dottor Churkill, il film più famoso tra quelli realizzati da Pensuti, una satira sull’imperialismo britannico. Il corto presenta come protagonista una ripugnante creatura ossessionata dall’oro e dalle ricchezze che si aggira nei sobborghi d’Inghilterra; una volta presa una speciale pozione di democrazia, il mostro si trasforma in nient’altri che Winston Churchill, primo ministro britannico durante la Seconda Guerra Mondiale. Assunto l’aspetto umano, Churchill viaggia fra tutti domini coloniali inglesi, dove gli abitanti vengono sfruttati per produrre nuova ricchezza; quando Churchill, però, viene a contatto con l’oro che si vuole accaparrare, egli ritorna alla sua mostruosa forma originaria. Cercando di scappare riassumendo la pozione di democrazia, Churkill viene fermato prima da una mano che sulla manica ha una svastica e poi da una che sulla manica ha il fascio littorio, per poi essere definitivamente sconfitto in uno scontro aereo.

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