Lo sa bene JacquesTati, che del rapporto fra uno spazio verosimile e il suo risuonare capriccioso
ha fatto un’arte comica e anche un po’ inquietante. Il suo monsieur Hulot è un
misto fra la muta pantomima di Chaplin e Keaton e la rapsodia sonora dei
fratelli Marx. Tutto il mondo attorno a Hulot è rumoroso e vociferante eppure
senza senso, a lui che sa così bene esprimersi e comunicare solo con gesti e
farfugliamenti. Più che le voci e le parole, sono in Tati i rumori a
significare, novello idioma di una modernità che è più di apparenza che di sostanza.
E così l’attore e regista francese si diverte a illudere vicendevolmente il
senso della vista e quello dell’udito, in un organizzato pastiche audiovisivo.
Esempio 1: Playtime. La sequenza della sua attesa per il colloquio di lavoro, in un ambiente per lui lunare e quasi astratto nel suo asettico grigiore, è un autentico capolavoro in cui il gag sonoro, non si conclude con la sua prima manifestazione, ma si ripropone con variazioni sempre più sofisticate, fino a mettere in crisi lo statuto stesso del presunto mimetismo fra occhio e orecchio così difficilmente acquisito dallo spettatore cinematografico. La sequenza in questione è quella del film Playtime (id., 1967), dal minuto 14 ai minuto 21 circa, che di fatto si compone di tre scene-gag. La prima si attiva di fronte alla sala d’aspetto: Hulot e l’anziano guardiano attendono il responsabile del colloquio in corridoio. Hulot non può, ma noi vediamo bene il corridoio che si estende in profondità, ritmato da una teoria di colonne e vetri. Il gioco prospettico, elaborato con una sapiente modifica delle distanze e grandezze del décor (pavimento, vetrate, colonne) creano l’illusione di un corridoio dalla lunghezza smisurata, in cui echeggiano in primo piano sonoro delle scarpe con il tacco. Quel puntino laggiù è l’uomo che Hulot sta aspettando, e infatti, avendo la visuale bloccata dall’armadio-computer, più volte fa il gesto di sollevarsi per incontrarlo e il guardiano a dirgli che c’è tempo. L’attesa sembra infinita, il responsabile del colloquio “fatica” ad approssimarsi e raggiungere il rumore dei propri tacchi che, come il nostro orecchio e quello di Hulot, “aspettano” le rispettive calzature. Finalmente il responsabile arriva, squadra Hulot, lo fa accomodare nella sala d’aspetto. Qui ad attenderlo i ritratti arcigni, in bianco e nero, presumibilmente di illustri direttori e capi, appesi alla sola parete che non abbia vetrate. Le foto non parlano, ma sembrano farlo i loro sguardi accoppiati a diverse tonalità di rumore bianco (ventole di condizionatori? Rélais?) che avvolgono quello spazio traslucido e freddo nel quale il povero Hulot sembra un astronauta che saggia la gravità lunare. Pesce in un acquario, valutiamo alternativamente le sue reazioni dall’esterno, dal rumoroso marciapiede oltre le vetrate, per poi verificarle dall’interno. Lo schienale della moderna poltrona in pelle si schiaccia e deforma sotto la pressione della sua mano e lui reagisce stupito al suo rimodellarsi. Perché? Lo scopriamo tornando vicino a lui: lo schienale si sforma e rimodella spernacchiando e sbuffando, come gli parlasse. E così, come entra un altro candidato in attesa del colloquio, fra i due, muti e distinti-distanti mondi, il dialogo si riduce a un saluto di sedili sbuffanti e poi in un monologo orchestrato da cerniera, penna a scatto, inalatore nasale, sospiri, spazzolate: Hulot assiste sullo sfondo, attonito, quel giovane rampante e del tutto a suo agio a produrre, comunicare, con quei suoni secchi, meccanici, spersonalizzati e in magniloquente stereofonia. Sarà il giovane il primo a essere chiamato a colloquio, Hulot continua la sua attesa. E qui si colloca la terza scena di questa sequenza, che riprende con l’andirivieni fra dentro e fuori dello spettatore con Hulot che riprendere a muoversi per la sala e a guardare i passanti oltre il vetro. È in questa situazione, con Hulot che guarda attraverso la vetrata e noi dall’esterno a vedere lui, avvolti dal rumore del traffico, che il gag ha luogo: alle sue spalle vediamo passare l’impiegato del colloquio che, non vedendolo al suo posto, ritorna sui suoi passi per andarsene. Stacco sul corridoio e l’usciere che, avvisato dal sonoro rumore dei suoi tacchi, lo richiama indietro. (ricorda che lui è “l’uomo con i tacchi” cerca nei titoli di coda). Proprio così: Hulot, come noi, non l’aveva sentito passare alle sue spalle! Era anche lui “sintonizzato” sul nostro orecchio, sul nostro punto di ascolto, in mezzo al traffico. Jacques Maumont, l’ingegnere del suono di questo film, è lo stesso di altri film di Tati e il principale artefice degli effetti sonori di un po’ tutto il cinema d’autore francese del secondo dopoguerra (Bresson, Godard, Truffaut), attento ai rapporti espressivi fra immagine e suono.
Esempio 2: Volere Volare. Debitore di Tati, tanto per la comicità del personaggio quanto per il surreale universo sonoro con cui elabora i suoi gag, è certamente Maurizio Nichetti che, in Volere Volare del 1991, mette in scena le tragicomiche disavventure di un timido e laconico fonico e con lui delle possibilità inventive e immaginifiche del sonoro. Celebri le scene in cui il protagonista sonorizza a modo suo un film per adulti, cerca in una ferramenta gli “attrezzi” per sonorizzare un cartone animato e poi il mickey mousing dello stesso (il cartoon d'antan Learning to Fly del titolo). È talmente compreso dal suo lavoro, che il protagonista finisce con il trasformarsi in un cartoon, con una tecnica che piacevolmente richiama l’ibrido del ben più costoso Chi ha incastrato Roger Rabbit (Zemeckis, 1988).
Esempio 1: Playtime. La sequenza della sua attesa per il colloquio di lavoro, in un ambiente per lui lunare e quasi astratto nel suo asettico grigiore, è un autentico capolavoro in cui il gag sonoro, non si conclude con la sua prima manifestazione, ma si ripropone con variazioni sempre più sofisticate, fino a mettere in crisi lo statuto stesso del presunto mimetismo fra occhio e orecchio così difficilmente acquisito dallo spettatore cinematografico. La sequenza in questione è quella del film Playtime (id., 1967), dal minuto 14 ai minuto 21 circa, che di fatto si compone di tre scene-gag. La prima si attiva di fronte alla sala d’aspetto: Hulot e l’anziano guardiano attendono il responsabile del colloquio in corridoio. Hulot non può, ma noi vediamo bene il corridoio che si estende in profondità, ritmato da una teoria di colonne e vetri. Il gioco prospettico, elaborato con una sapiente modifica delle distanze e grandezze del décor (pavimento, vetrate, colonne) creano l’illusione di un corridoio dalla lunghezza smisurata, in cui echeggiano in primo piano sonoro delle scarpe con il tacco. Quel puntino laggiù è l’uomo che Hulot sta aspettando, e infatti, avendo la visuale bloccata dall’armadio-computer, più volte fa il gesto di sollevarsi per incontrarlo e il guardiano a dirgli che c’è tempo. L’attesa sembra infinita, il responsabile del colloquio “fatica” ad approssimarsi e raggiungere il rumore dei propri tacchi che, come il nostro orecchio e quello di Hulot, “aspettano” le rispettive calzature. Finalmente il responsabile arriva, squadra Hulot, lo fa accomodare nella sala d’aspetto. Qui ad attenderlo i ritratti arcigni, in bianco e nero, presumibilmente di illustri direttori e capi, appesi alla sola parete che non abbia vetrate. Le foto non parlano, ma sembrano farlo i loro sguardi accoppiati a diverse tonalità di rumore bianco (ventole di condizionatori? Rélais?) che avvolgono quello spazio traslucido e freddo nel quale il povero Hulot sembra un astronauta che saggia la gravità lunare. Pesce in un acquario, valutiamo alternativamente le sue reazioni dall’esterno, dal rumoroso marciapiede oltre le vetrate, per poi verificarle dall’interno. Lo schienale della moderna poltrona in pelle si schiaccia e deforma sotto la pressione della sua mano e lui reagisce stupito al suo rimodellarsi. Perché? Lo scopriamo tornando vicino a lui: lo schienale si sforma e rimodella spernacchiando e sbuffando, come gli parlasse. E così, come entra un altro candidato in attesa del colloquio, fra i due, muti e distinti-distanti mondi, il dialogo si riduce a un saluto di sedili sbuffanti e poi in un monologo orchestrato da cerniera, penna a scatto, inalatore nasale, sospiri, spazzolate: Hulot assiste sullo sfondo, attonito, quel giovane rampante e del tutto a suo agio a produrre, comunicare, con quei suoni secchi, meccanici, spersonalizzati e in magniloquente stereofonia. Sarà il giovane il primo a essere chiamato a colloquio, Hulot continua la sua attesa. E qui si colloca la terza scena di questa sequenza, che riprende con l’andirivieni fra dentro e fuori dello spettatore con Hulot che riprendere a muoversi per la sala e a guardare i passanti oltre il vetro. È in questa situazione, con Hulot che guarda attraverso la vetrata e noi dall’esterno a vedere lui, avvolti dal rumore del traffico, che il gag ha luogo: alle sue spalle vediamo passare l’impiegato del colloquio che, non vedendolo al suo posto, ritorna sui suoi passi per andarsene. Stacco sul corridoio e l’usciere che, avvisato dal sonoro rumore dei suoi tacchi, lo richiama indietro. (ricorda che lui è “l’uomo con i tacchi” cerca nei titoli di coda). Proprio così: Hulot, come noi, non l’aveva sentito passare alle sue spalle! Era anche lui “sintonizzato” sul nostro orecchio, sul nostro punto di ascolto, in mezzo al traffico. Jacques Maumont, l’ingegnere del suono di questo film, è lo stesso di altri film di Tati e il principale artefice degli effetti sonori di un po’ tutto il cinema d’autore francese del secondo dopoguerra (Bresson, Godard, Truffaut), attento ai rapporti espressivi fra immagine e suono.
Esempio 2: Volere Volare. Debitore di Tati, tanto per la comicità del personaggio quanto per il surreale universo sonoro con cui elabora i suoi gag, è certamente Maurizio Nichetti che, in Volere Volare del 1991, mette in scena le tragicomiche disavventure di un timido e laconico fonico e con lui delle possibilità inventive e immaginifiche del sonoro. Celebri le scene in cui il protagonista sonorizza a modo suo un film per adulti, cerca in una ferramenta gli “attrezzi” per sonorizzare un cartone animato e poi il mickey mousing dello stesso (il cartoon d'antan Learning to Fly del titolo). È talmente compreso dal suo lavoro, che il protagonista finisce con il trasformarsi in un cartoon, con una tecnica che piacevolmente richiama l’ibrido del ben più costoso Chi ha incastrato Roger Rabbit (Zemeckis, 1988).
Il personaggio interpretato da Nichetti nel film Volere Volare è definito con termine inglese "Foley", di cui si occupa - con esemplificazioni sul ruolo dei rumori nei film - il breve videosaggio di Gloria L. (2023):
Comunicare con i rumori
I film di Tati e di
Nichetti portano l’attenzione su tutto l’universo sonoro di cui la voce è solo
uno dei fenomeni, quello dei rumori e delle musiche. Intanto, lo si sarà già
compreso, bisogna premettere che solo per comodità si distinguono i suoni in
voci, rumori, musiche, quando in realtà l’unica distinzione sensata è quella
legata al grado comunicativo e informativo che ciascun suono porta con sé nella
comprensione del testo audiovisivo. La voce umana riesce a riprodurre un’ampia
tipologia di suoni, fra i quali quelli verbali sono solo una piccola parte, e
la loro capacità comunicativa è commisurata alle competenze linguistiche
dell’ascoltatore. Una lingua che non mi è nota si riduce a un cacofonico o
suadente insieme di suoni senza senso e, anzi, proprio su questo esotismo
linguistico rispetto al pubblico di riferimento si può far leva per
caratterizzare un personaggio o un popolo, basti pensare all’effetto ottenuto
dal mancato doppiaggio o sottotitolatura di alcune lingue rispetto a altre
presenti in un film, o alla resa espressiva di alcune lingue diverse da quelle
comunemente parlate. Solo per citare i casi più celebri: il tedesco che
volutamente assomiglia più a un latrato nel film di Bresson Un condannato a
morte è fuggito, con il quale si vuole rendere la funzione di aguzzini delle
guardie del carcere politico; oppure la scelta di far parlare ciascuno nella
propria lingua nel film di Godard Il disprezzo e inserire fra i personaggi una
traduttrice. Oppure tutti quei casi in cui la lingua viene storpiata per
rendere, con una certa dose di stereotipo, la diversa provenienza linguistica
del parlante (un altro caso di “inflessione” che, come abbiamo visto, inficia
la portabilità della voce-soggetto). Allo stesso modo, la distinzione fra
rumori e musica si può fare solo a livello acustico, in relazione alla maggiore
o minore organizzazione delle frequenze che li compongono (per esempio la nota
suonata da un violino rispetto al frantumarsi di un cristallo). Almeno dal XX
secolo sappiamo che le categorie di “musicale” si sono enormemente espanse
rispetto al passato, il “rumore” è entrato nelle partiture di musica colta
quanto nelle canzonette pop. Insomma, tutte le espressioni sonore vanno
decifrate in relazione alla loro funzione comunicativa nel contesto in cui
vengono percepite, nel modo in cui “arredano” lo spazio, visivo o anche solo immaginario.
L’espansione che i suoni producono rispetto all’immagine, non è solo quella
relativa allo spazio direttamente percepito dalla vista, ma anche quella
rispetto a uno spazio fuoricampo, reale o virtuale, immaginario, che sia. E,
come per gli oggetti in scena, per cui risultano tanto più densi di significato
quanto sono rari, così, anche per i suoni, la loro capacità espressiva e
comunicativa diminuisce in relazione all’aumentare del loro numero e
sovrapposizione. Lo sanno bene gli autori appena citati, come lo sanno bene i
missaggisti di scene di suspense: una sola porta che cigola in una stanza buia
e silenziosa ha un effetto assicurato. Ma la distinzione e ricchezza dei suoni
in un film è anche (è stata prima di tutto) una questione tecnica. Dai primi
balbettamenti in sincrono agli attuali film-concerto stereo surround tipo
Bohemian Rapsody l’evoluzione tecnologica è stata enorme. Come per il
linguaggio delle immagini in movimento, anche per il sonoro cinematografico le
possibilità espressive si sono nel tempo confrontate con le disponibilità
tecnologiche e con la sperimentazione di stilemi narrativi che nel tempo si
sono usurati o viceversa entrati nella grammatica audiovisiva e come tali
accolti come mimetici dal pubblico (salvo poi modificarli per destabilizzarne
le aspettative, come nel caso segnalato del finale di Psycho). Nei primi film
sonori, la banda di frequenze disponibili in entrata (microfono) e uscita
(colonna sonora e impianto di amplificazione) erano così limitate da precludere
la possibilità di registrare contemporaneamente voci rumori e musiche perché
avrebbero finito per non essere distinguibili le une dagli altri, per questo
era necessario dosare e alternare le differenti sorgenti sonore affinché non si
coprissero a vicenda. La limitata scelta di soluzioni praticabili si rivelò,
come spesso accade, uno stimolo a sfruttarle creativamente e ad arredare con i
suoni uno spazio immaginario, fuori campo, che essi popolavano a basso costo
produttivo e con nuova efficacia narrativa. Oltre all’esempio già citato dei
primi film sonori di Lang, sono le produzioni minori e i film di genere a
utilizzare l’economicità del sonoro a fini espressivi e di suspense. Scelte
luministiche e sonoro si potrebbe dire svolgono in questi una funzione analoga e
complementare, un esempio Il bacio della pantera (1942), di Tourner.
Dalla seconda metà
degli anni ’30, infatti, potendo gestire il suono su più piste di registrazione
e con una maggiore frequenza di banda, il sonoro (voci, rumori, musiche) non
sarà più un problema da risolvere sul set, ma in postproduzione. Sul set il
sonoro continuerà a essere registrato, ma solo come guida per il missaggista e
il montatore, perché ormai la colonna sonora si può tutta ricreare in
laboratorio: per i rumori si ricorre a più o meno ricche campionature (come
quelle oggi disponibili online) oppure a “suoni solo” registrati a parte dal
fonico nelle location del film (importante: il fonico registra anche il
“silenzio”, il rumore bianco che caratterizza un luogo rispetto a un altro,
servirà poi per avere un omogeneo sfondo sonoro in fase di missaggio); per le
voci al doppiaggio (o all’autodoppiaggio, pratica comune a Hollywood, meno in
Europa). Ma se ogni suono viene aggiunto dopo, quali e quanti suoni associare a
ogni singola inquadratura o sequenza? Se lo scopo primo di un prodotto
audiovisivo fosse il mimetismo, non si dovrebbe neppure porre la domanda,
perché il suono dovrebbe allora rispecchiare quello degli spazi ripresi, come
in un documentario naturalistico, ma siccome raramente questo avviene, vale la
medesima legge della proporzione inversa: più suoni vengono inseriti, meno
ciascuno di essi sarà di per sé significativo, andranno a costituire un tappeto
sonoro sul quale, eventualmente altri suoni prenderanno il sopravvento. Questa
possibilità di gestire un sempre maggior numero di suoni e quindi di arricchire
la colonna sonora del film avviene in relazione diretta con le tecnologie messe
a punto dall’industria discografica: stereofonia, dolby, surround, digitale; a
cui corrispondono brevetti e tipologie di pellicole stampate; a cui
corrispondono sale cinematografiche più o meno attrezzate e che adottano un
sistema piuttosto che un altro. Fino a pochi anni fa, cioè prima della
trasformazione totale dei film in digitale, una pellicola standard poteva
arrivare ad ospitare quattro diverse colonne sonore: la canonica traccia ottica
analogica, la traccia Dolby Digital, il time code per la traccia digitale DTS,
e le tracce SDDS. [per approfondire vedi wikipedia sonoro cinematografico]. Oltre a queste
tipologie, molti altri brevetti si sono presentati nel tempo, lo scopo sempre
lo stesso, quello di accoppiare allo spettacolo visivo un altrettanto potente
spettacolo sonoro, per cui oggi si parla ormai di film-concerto e di tipologie
di spettatori che, a differenza di un tempo per cui in sala i posti laterali
erano occupati solo per non farsi notare o perché ultimi disponibili, oggi li
preferiscono perché possono maggiormente godere della fisicità (vibrazioni
corporee) del potente suono espulso dagli altoparlanti.
Quello che però è
più interessante seguire non sono tanto le guerre commerciali che in questo
settore si sono susseguite, quanto gli effetti di questi cambiamenti sul
linguaggio del film. I primi film sonori amplificavano il suono in sala con un
unico altoparlante posto dietro lo schermo. Il suono veniva quindi localizzato
in relazione all’immagine fisica e i suoni fuori campo o quelli di sorgenti che
attraversavano lo schermo da o per il fuoricampo venivano velocemente
spazializzati, rispetto all’immagine, dallo spettatore stesso. Le cose mutano
quando anche il sonoro cinematografico si dota della stereofonia. Il suono
stereofonico, pur sperimentato fin dagli anni ’30 (nel ’35 la versione
sonorizzata del Napoleon di Gance, nel ’42 Fantasia di Disney) e quello stereo
surround (nel formato cinemascope dal ’53), era dedicato a film a grosso budget
e per un richiamo pubblicitario, ma le sale per lo più erano dotate di impianto
monofonico, sia per una questione di costi, sia perché il suono cinematografico
soffriva di un fastidioso rumore di fondo, fruscio che aumentava con l’usura
della pellicola e dei canali di diffusione. Negli anni '70, l'abbattimento di questi fruscii con l'adozione del sistema Dolby ha aperto tutte le sale alla stereofonia e poi negli anni a seguire all'aggiunta di altri sorgenti sonore amplificate tutte intorno allo spettatore (surround). Il superamento della monofonia ha nuovamente posto il problema: dove "posizionare" i suoni? Una carrozza che entra in campo da destra ma il cui rumore è già percepibile quando ancora è fuori campo, la percepirò con l'altoparlante di destra e poi da quelli posti dietro lo schermo? E poi se esce a sinistra con l'altoparlante di sinistra? Tendenzialmente è questa supposta "mimesi vettoriale" fra sorgente e suono quella che si mette in atto, con tutte le storture che questo, si può facilmente immaginare, può comportare. E accentuando ancor più l'idea mistificante di un presunto realismo del sonoro rispetto all'immagine ("Si sente tutto quello che si vede, anzi, di più!"). Vale la pena riflettere su tutte le variabili che entrano in gioco a seconda di come si interpreta il rapporto fra suono e immagine e soprattutto il rapporto "organico" che intercorre fra i due a creare, come direbbe Ejzenstejn, "l'io sento [pari all'inglese feel]" il film e non "io vedo e ascolto" il film.
Un altro tipo di problema si pone, anche dal punto di vista filologico, perché le rimasterizzazioni dei vecchi film spesso rielaborano il suono monofonico in stereofonico e addirittura surround, apportando evidenti distorsioni rispetto al rapporto suono-immagine originario del film, come per esempio nell’edizione italiana in DVD (2010) di Profondo Rosso (Dario Argento, 1968), che dispone del sonoro stereo e surround (ma non il mono, come in originale).
Un altro tipo di problema si pone, anche dal punto di vista filologico, perché le rimasterizzazioni dei vecchi film spesso rielaborano il suono monofonico in stereofonico e addirittura surround, apportando evidenti distorsioni rispetto al rapporto suono-immagine originario del film, come per esempio nell’edizione italiana in DVD (2010) di Profondo Rosso (Dario Argento, 1968), che dispone del sonoro stereo e surround (ma non il mono, come in originale).
Mickey mousing
Mickey mouse in Steamboat Willie. |
Esempio 1: Fra questi, delizioso e divertente l’episodio Hic-Up pup del 1954 in cui, paradossale per un cartoon in michey mousing, il problema per i due antagonisti, sempre in lotta fra loro, è proprio quello di “non fare rumore”, altrimenti il piccolo dell’irascibile mastino italoamericano si sveglia dal suo sonnellino, inizia a singhiozzare, e il papà minaccia “big troubles” a Tom. A titolo esemplificativo delle strategie comunicative messe in atto dal mickey mousing, da notare come l’uccellino cinguetti con le note di un flauto; come lo sfondamento della porta venga preannunciato, prima ancora che avvenga/venga mostrato, da uno stridore di trombe; come il cucciolo saltelli al suono di un tamburo “alto” e poi il padre con un tamburo “basso”; come il fare capolino di Tom e Jerry oltre il muro della casa, movimento di per sé silenzioso, venga accompagnato da dei violini; come gli oggetti (cuffie, tromba, trappola per topi) vengano magicamente importati e allontanati dallo spazio del gag, come provenienti da (e destinati a) un inesauribile e silenzioso “magazzino” fuoricampo. Usato molto frequentemente negli anni ’30 e ’40, in generale la tecnica del mickey mousing aiuta a strutturare l’esperienza dello spettatore, a indicargli quali eventi dovrebbero coinvolgerlo, e in che misura. La musica e gli effetti rumoristici partecipano degli esistenti e degli eventi, come mimandoli, potenziando la loro presenza, fino al limite della (a volte involontaria) parodia. Fra i compositori di musica per film, sicuramente il più inventivo in questa tecnica fu Max Steiner il quale, insieme a compositori quali Franz Waxman, Erich W. Korngold, Alfred Newman e Bernard Hermann (celebri le sue partiture per i film di Hitchcock e la sua ultima per Taxi Driver di Scorsese) definirono gli standard della musica per film.
Esempio 2: Fra questi anche Dimitri Tiomkin che strutturò in mickey mousing il celebre incipit (5 minuti!) nel saloon di Un dollaro d’onore (Rio Bravo, H. Hawks, 1959), tutto costituito da suoni ambiente e un onnipresente accompagnamento musicale a mimare, accentuare, commentare, le azioni e i personaggi, quasi come un’ouverture operistica (e infatti la critica di infantile calco wagneriano legata a questa tecnica è sottolineata dai detrattori dell’epoca).
E ritorniamo di nuovo alla musica...
Sul Michey mousing vedi anche il videosaggio di F. Pinna,2020
Continua con La voce soggetto
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