Gerarchizzazione
Questo fotogramma da Quarto potere (Citizen Kane, O. Welles, 1941), nel suo gioco di sguardi,
distanze, abiti e illuminazione degli attori ben si presta. Sul pianerottolo
davanti alla porta dell’appartamento di Susan Alexander, l’amante segreta di
Kane, si confrontano lo stesso Kane, il suo rivale politico, Gettys, la moglie
di Kane, Susan Alexander. Alla vigilia del voto Gettys ha rivelato alla moglie
di Kane l’esistenza di Susan ed ora c’è la resa dei conti: si ritirerà Kane
dalla campagna elettorale salvando la propria reputazione oppure sfiderà
comunque Gettys sapendo che questi non esiterà a rovinargli pubblicamente la
reputazione? Le due donne lo guardano interrogative, a sinistra lo sfida
Gettys, a destra, a ridosso della mdp, il profilo enorme, in ombra, quasi un
busto di marmo, di Kane. In piena luce invece, e in abito bianco di seta
luminosa, al centro dell’inquadratura, la moglie, che gli pone l’out-out per
salvare almeno le apparenze, accanto a lei, pur bionda ma quasi opaca al
confronto nella sua vestaglia scura, Susan che gli chiede cosa ne sarà di lei,
dalla parte opposta Gettys in cappotto scuro e spalle in ombra. Per l’ego smisurato
di Kane il ricatto è peggiore della sconfitta politica e della fine del suo
matrimonio. Il convergere degli sguardi su di lui (sottolineate dalle linee
prospettiche del décor), letteralmente sfigurato, rigido sulla diagonale che
porta al contrappunto luminoso costituito dalla moglie, ritagliano la sua a
stento trattenuta rabbia e il suo orgoglio ferito. Sappiamo come andrà a
finire: piuttosto di sottostare al ricatto e rinunciare alla campagna politica,
perde moglie e figlio, perde le elezioni, perde l'amore di Susan spingendola a soddisfare la sua pubblica rivalsa.
Funzione gerarchica della luce: Quarto potere (O. Welles, 1941) | . |
Consiglio: analizzate il fotogramma sovrapponendogli la retina dei
terzi,
cogliendo le direttrici degli sguardi, le linee prospettiche, luci e
ombre.
Simbolizzazione
Per questa funzione l’esempio è un
fotogramma da un film uscito lo stesso anno di Quarto potere: Il sospetto, 1941,
di Alfred Hitchcock. In esso una ricca ereditiera comincia a sospettare che il
marito voglia ucciderla per impossessarsi dell’eredità. Nella scena da cui il
fotogramma è tratto, Lina, la moglie, è a letto indisposta e il marito, Johnny,
si offre di portarle un bicchiere di latte caldo… In questo fotogramma la luce
è a forte contrasto. L’unica illuminazione è quella data dalla luce della luna
che filtra attraverso il lucernario le cui ombre disegnano una ragnatela sul
muro. L’inquadratura è ripresa dall’alto delle scale con un’angolazione che
crea uno spazio di linee oblique, accentuate dagli angoli acuti degli scalini,
dagli spigoli dei quadri e dalle curve dei corrimano e delle ombre alla parete.
Già da questi elementi ci rendiamo conto che Hitchcock sta suggerendo uno
spazio, un mondo non in asse, non dritto, giusto, ma ambiguo, misterioso,
minaccioso. Sembra presentare più che l’azione “reale”, la trasfigurazione
dell’ansia e paura della moglie che teme che il bicchiere di latte che le verrà
portato sia avvelenato (e infatti lo ritroveremo intonso sul suo comodino la
mattina dopo). Il marito è presente solo come una silhouette nera al centro
dello spazio, come un ragno che sulla tela si approssima alla preda. E il
bicchiere di latte che porta sul vassoio è stranamente, irrealisticamente,
bianco e luminoso nell’ombra imperante. Potere della luce: se la luce della
luna è resa da uno spot posto in alto fuoricampo, quella innaturale e
misteriosa luminosità del bicchiere (conterrà solo latte? È la domanda che ci
pone) è data da una lampadina posta dentro
il bicchiere stesso alimentata da una batteria nascosta nell’abito di Johnny.
Un trucco relativamente semplice ma di grande efficacia, uno dei tanti che
Hitchcock svela durante le interviste rilasciate a Truffaut (Il cinema secondo Hitchcock, il Saggiatore) e che il regista
francese citerà attraverso l’attrezzista del meta-film Effetto notte.
Leggibilità
Già si sarà notato come le due
precedenti funzioni non sono inscindibili l’una dall’altra nella composizione
luministica dello spazio fotografico e nella sua analisi. E questa terza
funzione apparirà quasi ovvia: la luce è condizione indispensabile a rendere
visibile lo spazio fotografato, a impressionare la pellicola. Ma questa
funzione va intesa “al contrario”: quali spazi all’interno dell’inquadratura
saranno illuminati e quali rimarranno al buio per direzionare meglio
l’attenzione dello spettatore e al contempo svolgere la funzione drammaturgica
prevista? Lo abbiamo visto nella prima descrizione: kane, il protagonista
assoluto del film, è messo quasi fuori campo e in ombra proprio nel momento in
cui sta maturando una delle scelte più importanti per il suo futuro. Tutta la
drammaticità è data proprio nello sottolineare la tensione emotiva dei soggetti
sui quali la sua decisione influirà. Allo stesso modo nel secondo esempio
Johnny è praticamente irriconoscibile, è l’uomo nero che incombe al capezzale
di Lina. Uno spazio buio più o meno ampio all’interno di un’inquadratura può
avere molteplici funzioni, quella più tipica è creare suspense, come nei film
di genere (thriller, horror).
Leggibilità: Cosa si nasconde nel buio del "ventre mummificato" dell'alieno? (Alien, R. Scott, 1979) |
Insomma, perché Marion non avrebbe dovuto fidarsi di Norman...
Questa funzione di “anticipazione”
svolta dalla luce trova un esempio perfetto, e per questo già citato in più
manuali (compreso il Rondolino-Tomasi dal quale in parte si attingerà anche
qui), è quello tratto da un altro film di Hitchcock: il dialogo fra Norman e
Marion in Psycho, 1960. La sequenza in questione è quella che precede il famoso
assassinio di Marion nella doccia. Norman ha gentilmente invitato Marion, che
ha appena preso stanza nel suo altrimenti vuoto mothel, a fargli compagni
mangiando qualcosa nel salottino dietro la reception. Il dialogo fra i due, è
apparentemente sobrio, ma traspaiono e rimangono sospesi argomenti che a turno
i due manifestano di non voler affrontare (le ragioni del viaggio di Marion, il
“sentirsi in gabbia” di Norman). Il dialogo è offerto allo spettatore in un
classico campo-controcampo, prima a media distanza e poi più ravvicinato, sui
due che parlano, Marion seduta su un divano, Norman su una poltrona. L’esiguo
spazio messo a disposizione dal salottino e presentato nel precedente
establishing shot presenta una struttura luministica in cui la key-light, dal
punto di vista diegetico, è quella della sola lampada posta su un tavolino fra
il divanetto di Marion e la poltrona di Norman. In realtà l’illuminazione del
set è molto più complessa (e intensa) e segue le regole della triangolazione
luminosa, ma la presenza della lampada serve al regista per meglio giustificare
la vettorializzazione di luce ed ombra che – una volta iniziato il più
drammatico monologo finale di Norman, sottolineato dal campo-controcampo più
ristretto sui due e dall’aumentato angolo di visuale su quest’ultimo – si
accentua nettamente. Il campo-controcampo prima disteso e in high-key si
trasforma in un campo-controcampo denso e low-key, soprattutto in relazione
all’inquadratura su Norman. Siamo ancora nella stessa stanza ma fra i due la
separazione ha luogo. Non solo non abbiamo più il tavolino con lampada e
telefono a cui corrisponde la cassettiera con candela a fare da collegamento
fra gli spazi occupati dai due, ma mentre la frontalità dell’inquadratura su
Marion è ribadita, Norman è sempre più messo ai margini. Marion è inserita in
uno spazio ortogonale ad altezza di sguardo, reinquadrata tra lo schienale del
divano e la tenda, in una modalità high-key, in cui vengono evidenziate le
morbide curve (della brocca, del volto di lei, dei drappi, stoffe, divano,
piatto appeso). Norman è ora invece inquadrato dal basso, appare di profilo e
in ombra, quasi un intruso all’interno di uno spazio in modalità high key su
cui incombono i rapaci notturni da lui impagliati, ingigantiti dalle ombre che
le loro ali proiettano sul soffitto, così come le cornici spigolose dei quadri
alle pareti. L’inquadratura leggermente inclinata presenta infatti uno spazio
instabile, di angoli acuti e becchi, i quadri alle pareti, come mise-en-abyme
premonitrici, raffigurano scene mitologiche di ninfe braccate dal dio
stupratore. Non occorre che tutti questi segnali siano coscientemente colti
dallo spettatore, importante è che egli venga accompagnato, inserito, spinto a
percepire la minaccia che incombe su Marion, molto maggiore da quella da cui è
in fuga.
Queste erano
impostazioni luministiche ben note e applicate nel cinema classico ma valide e
molto utilizzate ancora oggi e, quando applicate in un’analisi del testo
visivo, utili se non altro in absentia, per differenza, scostamento rispetto
alla “regola”.
P. Signorato ha sintetizzato in un efficace videosaggio i contenuti di questo post:
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