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domenica 11 ottobre 2020

1.4.3 Le funzioni della luce: gerarchizzazione, simbolizzazione, leggibilità


Gerarchizzazione

Questo fotogramma da Quarto potere (Citizen Kane, O. Welles, 1941), nel suo gioco di sguardi, distanze, abiti e illuminazione degli attori ben si presta. Sul pianerottolo davanti alla porta dell’appartamento di Susan Alexander, l’amante segreta di Kane, si confrontano lo stesso Kane, il suo rivale politico, Gettys, la moglie di Kane, Susan Alexander. Alla vigilia del voto Gettys ha rivelato alla moglie di Kane l’esistenza di Susan ed ora c’è la resa dei conti: si ritirerà Kane dalla campagna elettorale salvando la propria reputazione oppure sfiderà comunque Gettys sapendo che questi non esiterà a rovinargli pubblicamente la reputazione? Le due donne lo guardano interrogative, a sinistra lo sfida Gettys, a destra, a ridosso della mdp, il profilo enorme, in ombra, quasi un busto di marmo, di Kane. In piena luce invece, e in abito bianco di seta luminosa, al centro dell’inquadratura, la moglie, che gli pone l’out-out per salvare almeno le apparenze, accanto a lei, pur bionda ma quasi opaca al confronto nella sua vestaglia scura, Susan che gli chiede cosa ne sarà di lei, dalla parte opposta Gettys in cappotto scuro e spalle in ombra. Per l’ego smisurato di Kane il ricatto è peggiore della sconfitta politica e della fine del suo matrimonio. Il convergere degli sguardi su di lui (sottolineate dalle linee prospettiche del décor), letteralmente sfigurato, rigido sulla diagonale che porta al contrappunto luminoso costituito dalla moglie, ritagliano la sua a stento trattenuta rabbia e il suo orgoglio ferito. Sappiamo come andrà a finire: piuttosto di sottostare al ricatto e rinunciare alla campagna politica, perde moglie e figlio, perde le elezioni, perde l'amore di Susan spingendola a soddisfare la sua pubblica rivalsa.
Funzione gerarchica della luce: Quarto potere (O. Welles, 1941)
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Consiglio: analizzate il fotogramma sovrapponendogli la retina dei terzi,
 cogliendo le direttrici degli sguardi, le linee prospettiche, luci e ombre.

 Simbolizzazione 

Funzione simbolica della luce: Il sospetto (A. Hitchcock, 1941). 
Consiglio di procedere come sopra.
 
Per questa funzione l’esempio è un fotogramma da un film uscito lo stesso anno di Quarto potere: Il sospetto, 1941, di Alfred Hitchcock. In esso una ricca ereditiera comincia a sospettare che il marito voglia ucciderla per impossessarsi dell’eredità. Nella scena da cui il fotogramma è tratto, Lina, la moglie, è a letto indisposta e il marito, Johnny, si offre di portarle un bicchiere di latte caldo… In questo fotogramma la luce è a forte contrasto. L’unica illuminazione è quella data dalla luce della luna che filtra attraverso il lucernario le cui ombre disegnano una ragnatela sul muro. L’inquadratura è ripresa dall’alto delle scale con un’angolazione che crea uno spazio di linee oblique, accentuate dagli angoli acuti degli scalini, dagli spigoli dei quadri e dalle curve dei corrimano e delle ombre alla parete. Già da questi elementi ci rendiamo conto che Hitchcock sta suggerendo uno spazio, un mondo non in asse, non dritto, giusto, ma ambiguo, misterioso, minaccioso. Sembra presentare più che l’azione “reale”, la trasfigurazione dell’ansia e paura della moglie che teme che il bicchiere di latte che le verrà portato sia avvelenato (e infatti lo ritroveremo intonso sul suo comodino la mattina dopo). Il marito è presente solo come una silhouette nera al centro dello spazio, come un ragno che sulla tela si approssima alla preda. E il bicchiere di latte che porta sul vassoio è stranamente, irrealisticamente, bianco e luminoso nell’ombra imperante. Potere della luce: se la luce della luna è resa da uno spot posto in alto fuoricampo, quella innaturale e misteriosa luminosità del bicchiere (conterrà solo latte? È la domanda che ci pone) è data da una lampadina posta dentro il bicchiere stesso alimentata da una batteria nascosta nell’abito di Johnny. Un trucco relativamente semplice ma di grande efficacia, uno dei tanti che Hitchcock svela durante le interviste rilasciate a Truffaut (Il cinema secondo Hitchcock, il Saggiatore) e che il regista francese citerà attraverso l’attrezzista del meta-film Effetto notte


Leggibilità 

Già si sarà notato come le due precedenti funzioni non sono inscindibili l’una dall’altra nella composizione luministica dello spazio fotografico e nella sua analisi. E questa terza funzione apparirà quasi ovvia: la luce è condizione indispensabile a rendere visibile lo spazio fotografato, a impressionare la pellicola. Ma questa funzione va intesa “al contrario”: quali spazi all’interno dell’inquadratura saranno illuminati e quali rimarranno al buio per direzionare meglio l’attenzione dello spettatore e al contempo svolgere la funzione drammaturgica prevista? Lo abbiamo visto nella prima descrizione: kane, il protagonista assoluto del film, è messo quasi fuori campo e in ombra proprio nel momento in cui sta maturando una delle scelte più importanti per il suo futuro. Tutta la drammaticità è data proprio nello sottolineare la tensione emotiva dei soggetti sui quali la sua decisione influirà. Allo stesso modo nel secondo esempio Johnny è praticamente irriconoscibile, è l’uomo nero che incombe al capezzale di Lina. Uno spazio buio più o meno ampio all’interno di un’inquadratura può avere molteplici funzioni, quella più tipica è creare suspense, come nei film di genere (thriller, horror).

Leggibilità: Cosa si nasconde nel buio del "ventre mummificato" dell'alieno? (Alien, R. Scott, 1979)

Insomma, perché Marion non avrebbe dovuto fidarsi di Norman...

Questa funzione di “anticipazione” svolta dalla luce trova un esempio perfetto, e per questo già citato in più manuali (compreso il Rondolino-Tomasi dal quale in parte si attingerà anche qui), è quello tratto da un altro film di Hitchcock: il dialogo fra Norman e Marion in Psycho, 1960. La sequenza in questione è quella che precede il famoso assassinio di Marion nella doccia. Norman ha gentilmente invitato Marion, che ha appena preso stanza nel suo altrimenti vuoto mothel, a fargli compagni mangiando qualcosa nel salottino dietro la reception. Il dialogo fra i due, è apparentemente sobrio, ma traspaiono e rimangono sospesi argomenti che a turno i due manifestano di non voler affrontare (le ragioni del viaggio di Marion, il “sentirsi in gabbia” di Norman). Il dialogo è offerto allo spettatore in un classico campo-controcampo, prima a media distanza e poi più ravvicinato, sui due che parlano, Marion seduta su un divano, Norman su una poltrona. L’esiguo spazio messo a disposizione dal salottino e presentato nel precedente establishing shot presenta una struttura luministica in cui la key-light, dal punto di vista diegetico, è quella della sola lampada posta su un tavolino fra il divanetto di Marion e la poltrona di Norman. In realtà l’illuminazione del set è molto più complessa (e intensa) e segue le regole della triangolazione luminosa, ma la presenza della lampada serve al regista per meglio giustificare la vettorializzazione di luce ed ombra che – una volta iniziato il più drammatico monologo finale di Norman, sottolineato dal campo-controcampo più ristretto sui due e dall’aumentato angolo di visuale su quest’ultimo – si accentua nettamente. Il campo-controcampo prima disteso e in high-key si trasforma in un campo-controcampo denso e low-key, soprattutto in relazione all’inquadratura su Norman. Siamo ancora nella stessa stanza ma fra i due la separazione ha luogo. Non solo non abbiamo più il tavolino con lampada e telefono a cui corrisponde la cassettiera con candela a fare da collegamento fra gli spazi occupati dai due, ma mentre la frontalità dell’inquadratura su Marion è ribadita, Norman è sempre più messo ai margini. Marion è inserita in uno spazio ortogonale ad altezza di sguardo, reinquadrata tra lo schienale del divano e la tenda, in una modalità high-key, in cui vengono evidenziate le morbide curve (della brocca, del volto di lei, dei drappi, stoffe, divano, piatto appeso). Norman è ora invece inquadrato dal basso, appare di profilo e in ombra, quasi un intruso all’interno di uno spazio in modalità high key su cui incombono i rapaci notturni da lui impagliati, ingigantiti dalle ombre che le loro ali proiettano sul soffitto, così come le cornici spigolose dei quadri alle pareti. L’inquadratura leggermente inclinata presenta infatti uno spazio instabile, di angoli acuti e becchi, i quadri alle pareti, come mise-en-abyme premonitrici, raffigurano scene mitologiche di ninfe braccate dal dio stupratore. Non occorre che tutti questi segnali siano coscientemente colti dallo spettatore, importante è che egli venga accompagnato, inserito, spinto a percepire la minaccia che incombe su Marion, molto maggiore da quella da cui è in fuga.


Queste erano impostazioni luministiche ben note e applicate nel cinema classico ma valide e molto utilizzate ancora oggi e, quando applicate in un’analisi del testo visivo, utili se non altro in absentia, per differenza, scostamento rispetto alla “regola”.
 
 
 
P. Signorato ha sintetizzato in un efficace videosaggio i contenuti di questo post:

 
 
 
 
 
 

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