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venerdì 9 ottobre 2020

2.2 Griffith e la nascita del Modo di Rappresentazione Istituzionale (MRI)

[su questo post trovi ulteriori approfondimenti proposti dagli studenti]
 
Ritorniamo ai due film di Porter del 1903 (Train Robbery e Fireman): in essi non mancano gli spazi-tempo necessari a una narrazione in continuità ed efficace, mancava però la “fiducia” in uno spettatore capace di staccarsi dalla poltrona per calarsi in una dinamica ubiqua. Nello spazio della stazione ferroviaria ha luogo l’evento scatenante che, come tale, biforca lo spazio-tempo in due direzioni, quello degli aggressori e quello degli aggrediti, con le reciproche azioni e reazioni. Dato T come Tempo diegetico complessivo, gli Spazi S1 (aggressori) e S2 (aggrediti) procedono divisi ma temporalmente paralleli (composti da frammenti accoppiati fra loro, contemporanei o conseguenti: T1-T2; T3-T4… Tn-Tn+) fino allo scioglimento finale, quando essi convergono nella sparatoria a cavallo e poi in quella finale (da notare: scioglimento positivo, cioè la cattura, se S1 = S2; negativo, cioè la fuga riuscita, se alla fine S1 ≠ S2). In Fireman, dato un T complessivo, gli S sono 3: quello dei pompieri in soccorso (S1), quello della casa in fiamme (S2), quello della donna e bambina (S3): fino a che S1-S2-S3 non convergeranno in un unico S/T lo “scioglimento” della trama non avrà luogo (da notare: scioglimento positivo se S1-S3 S2; negativo se S1-S3 = S2). In Train Robbery e Fireman troviamo, seppur ancora in potenza ma con i sintomi del “travaglio” (di una volontà formativa nei confronti dello spettatore), l’attrazione/il convergere verso le due strutture narrative basilari del montaggio cinematografico, del cinema come linguaggio: la pursuit e il last minute rescue. La prima ha una struttura “bipolare”, la seconda “tripolare”. La prima alterna lo spazio-tempo degli inseguiti (S1-T1) a quello degli inseguitori (S2-T1+), la seconda intreccia lo spazio-tempo del soggetto in pericolo (S1-T1), quello del soccorritore (S2-T1+), quello del pericolo stesso (S3-T1+). Dalle prime slapstick fino agli inseguimenti mozzafiato degli action movie odierni la struttura bipolare base rimane la medesima; così come la tripolare, a partire da Griffith. 
Pursuit: S-T1 inq. A inseguitori; S-T1+ inq. B inseguito. un esempio da Cops, B. Keaton, 1922.    
Last minute rescue: S-T1 inq. A il pericolo; S-T1+ inq. B. persone in pericolo; S-T1+ inq. C i soccoritori. Un esempio da The Birth of a Nation, D.W. Griffith, 1915.
Nel momento in cui il montaggio dispone le inquadrature in una relazione spazio-temporale delle une rispetto alle altre, l’inquadratura perde la sua autonomia per diventare porzione di uno spazio virtuale, frammentario, del quale procede a fornire una continuità, più o meno lineare. Il montaggio metterà insieme uno spazio-tempo ellittico che sarà lo spettatore ubiquo a ricomporre, facendo leva sulla propria memoria e coadiuvato, per ricomporre le cesure più difficili, da una “segnaletica”, essa stessa frutto di una serie di convenzioni formali e narrative, diverse o ricorsive nel corso degli anni e delle cinematografie di riferimento del pubblico. Esse riguardano le cosiddette “transizioni”, per esempio le dissolvenze incrociate a indicare un’azione riassunta in due inquadrature (l’auto si mette in moto per una certa destinazione, dissolvenza incrociata, l’auto arriva a destinazione), oppure lo schermo che si intorbida come fosse una superficie acquosa per indicare il passaggio dalla veglia al sonno/sogno. Queste, come altre, sono oggi - stilisticamente - indicatori di un’epoca e – comunicativamente – di una tipologia di spettatore molto meno smaliziato di quello odierno, per il quale simili indicatori non sono necessari e sono anzi avvertiti come stucchevoli o, appunto, riferimenti metafilmici.

Con Griffith entriamo a pieno titolo nel MRI. Il regista americano e il suo operatore Billy Bitzer sono un esempio eccellente, per precocità e consapevolezza, dell’avanzamento tecnico-linguistico delle tecnologie disponibili. Con Griffith nasce la figura stessa del regista cinematografico, che non si limita a ordinare “teatralmente” la scena e gli attori, ma a pre-vedere la struttura narrativa delle inquadrature in funzione di un montaggio che ricostituisca drammaturgicamente lo spazio frammentato delle singole inquadrature raccordandole fra loro. Anche sotto il profilo luministico. Gli studi si sono infatti nel frattempo gradualmente emancipati dall’alea e vettorialità della luce solare, dotandosi di illuminazione artificiale (lampade ad arco) e inserendo gli attori in spazi tridimensionali realistici (architetture e oggetti di scena). Riprendendo ed evolvendo l’illuminotecnica teatrale la utilizzarono per dare rilievo agli spazi e ai personaggi (back light), per gerarchizzare l’importanza degli elementi in scena (key light), per attutire e modellare le ombre (fill light). Si crea così un “percorso dell’occhio” dello spettatore, superando l’attrazione del centro geometrico dell’inquadratura con quello logico-drammaturgico della luce, che a sua volta agisce da collante fra le inquadrature, ormai disgiunte dalla frontalità e totalità della scena teatrale. Ciascuna inquadratura, non più autonoma e autosufficiente, rappresenta una specifica scelta narrativa e drammaturgica in relazione a quella che precede e segue. Alle medesime esigenze risponderà l’allontanarsi o avvicinarsi dell’inquadratura ad un soggetto: un movimento minimo, un’espressione del volto potranno essere evidenziati con naturalezza e finezza psicologica, superando l’artificiosità della recitazione teatrale.
In questo spazio virtuale, lo spettatore potrà di volta in volta assumere lo sguardo di un generale sul campo di battaglia (paesaggio c.l.l. o c.l.), quello di uno spettatore in sala (c.t.), quello di un personaggio presente in scena (soggettiva dal p.a. al p.p.), quella di un testimone occulto, invisibile (oggettiva, fino al dettaglio), e lo farà da angolazioni che mantengano la coerenza spaziale rispetto alla scena. Lo spettatore potrà attraversare muri, porsi su una nuvola o sottoterra (sguardo azimutale). Fra un’inquadratura e l’altra potrà superare a volontà (del regista-narratore) spazi e tempi minimi o enormi. Come ebbe a scrivere Giorgio Tinazzi: “Lo sguardo unisce ciò che lo spazio separa.

Con il kolossal Nascita di una nazione (1915) e soprattutto con il successivo Intolerance (1916), Griffith porterà alle estreme conseguenze questa grammatica, utilizzandola non solo per raccordare fra loro le inquadrature di un’unica sequenza narrativa, ma intrecciando le sequenze fra di loro, attraverso quello che verrà poi definito montaggio parallelo, ossia intersecando diverse storie e linee temporali. In Nascita di una nazione le strutture bipolari e tripolari si moltiplicano e la narrazione si volge all’una e all’altra attraverso didascalie o semplici montaggi di inquadrature appartenenti a linee narrative diverse: ai sudisti braccati dalle milizie di colore, si alterna Lillian Gish ostaggio del bruto mulatto. Siamo nel “mentre” e nel “durante”: gli spazi mutano ma il tempo sembra procedere linearmente fra gli uni e gli altri. In Intolerance, invece, le linee narrative (bipolari o tripolari) non sono solo diverse nello spazio, ma anche nel tempo, e il passaggio fra una linea narrativa e l’altra avviene soprattutto attraverso un montaggio formale, cioè di inquadrature che si richiamano per struttura e/o per azione. 
 
Intolerance: alle bighe di Ciro segue il treno in corsa.
Una sfida di velocità fra carri nello scenario del deserto dell’antica Babilonia si trasformerà in quella fra un treno e un’auto dei primi del novecento; a una folla che molesta Cristo alle pendici del Calvario corrisponderà quella delle sommosse della notte di S. Bartolomeo. Insomma, attraverso un richiamo formale fra inquadrature riferite a tempi e luoghi differenti fra loro, si crea uno scivolo logico sufficiente a trasportare senza traumi nel tempo lo spettatore ubiquo.
Nonostante l’impegno che oggi questi film-epopee richiedono allo spettatore (ciascuno più di tre ore di proiezione), costituiscono ancora una esemplificazione efficace della complessità narrativa che questa struttura frattale riesce ad assumere e a farci comprendere come formule narrative molto complesse di film più recenti siano loro dirette derivazioni. L’impasto spazio temporale di un film è paragonabile alla capacità di espansione di un universo: le diverse galassie (linee narrative) che lo compongono si distanziano sempre più fra loro in relazione alla massa (stelle/inquadrature che le contraddistingue). Deleuze parlerebbe della lievitazione di un pane con l’uva: ma mano che il pane lievita, gli acini (narrazioni) si distanziano fra loro una rispetto all’altra all’interno della forma finita costituita dall’impasto (film) [G. Deleuze, "la trasformazione del fornaio", L'immagine-tempo, 1985, p. 135].

I DUE FILM: SPUNTI DI ANALISI

Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915)
  • L’interno della casa sudista: dal piano totale alla frammentazione degli spazi.
  • Le scene di guerra drammatizzate attraverso diversi viraggi della pellicola ed espanse (primo piano e paesaggio) grazie al sapiente utilizzo di mascherini.
  • Il last minute rescue da parte del KKK della giovane Elsie (Lillian Gish) alternato a quello dei sudisti assediati nella capanna, nel quale inoltre Griffith inserisce un suggestivo raccordo sull’asse fino al viso in lacrime della bambina terrorizzata sul quale pende il pietoso calcio di fucile brandito dal nonno).
Un quarto spunto di analisi riguarda tutto il film quale reperto della cultura che l’ha prodotto (cultural study). Tratto dai racconti di Thomas Dixon The Clansman e The Leopard's Spots, Griffith fu fortemente contestato per il razzismo che li permea e che si esplica nel film in cui la nascita della nazione americana è direttamente collegata a quella del regime segregazionista perpetrato dal KKK. Se questa accusa al film è innegabile, non meno discutibile è l’ipocrisia liberal della critica dell’epoca, che si evidenzia nel film già a livello produttivo. 
Comparse afroamericane e attori in blackface: Birth of a Nation, D.W. Griffith, 1915.
Manifesto di un Minstrel Show, 1900.
 Nel prologo, infatti, in cui viene presentata la difficile situazione sociale americana a causa dell’elemento afro-americano, vengono utilizzate, "documentaristicamente" comparse di colore, ma nel momento in cui si passa alla "fiction" della ricostruzione storica della guerra civile, gli attori che interpretano personaggi di colore sono dei bianchi pesantemente truccati, perché all’epoca in cui il film è girato, cinquant’anni dopo i fatti narrati, negli Stati Uniti vigeva ancora il divieto per i neri di recitare in produzioni wasp, tanto che anche i celebri spettacoli di Broadway con Minstrel Song erano tutti in "blackface", cioè recitati da attori bianchi con pesante trucco, divenuto tipico (ma su questo vedi anche le pagine dedicate a The Jazz Singer e la nascita del film sonoro). Il regime d’apartheid, sulla base del quale si fonda, nel film, la nascita della nazione americana, e duramente contestato dall’opinione pubblica dell’epoca, era una realtà evidente in molti stati americani e sotto gli occhi di tutti, anche dei benpensanti. In questo senso il film di Griffith può essere letto, nelle sue varie componenti, anche come reperto sociologico del suo tempo e del lungo cammino da compiere per i diritti umani. Per rispondere a queste critiche Griffith produsse un colossal ancora più ambizioso, a denunciare le grandi e piccole ingiustizie che ogni epoca e latitudine ha perpetrato a causa dell’Intolerance.


Intolerance (Intolerance. Love’s struggle throughout the ages, 1916).
  • Il film interseca quattro episodi: la caduta di Babilonia, nel 539 a.C.; la passione di Cristo; la strage degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo del 1572; uno sciopero negli USA del 1914. Escluso il genere comico, in queste quattro narrazioni ritroviamo i generi più frequentati dalla cinematografia mondiale dell’epoca: la vita di Cristo, la storia più rappresentata dal cinema fin dalle sue origini; i film in costume greco-romano, all’epoca tipici della cinematografia italiana e per i quali si coniò la definizione di Kolossal (intendendo sia il monumento che più rappresenta quell’immaginario, sia il gigantesco sforzo produttivo per realizzarli); i film d’art francesi, eleganti film storici in costume; i film a sfondo sociale americani, volti a denunciare i vizi della società contemporanea nell’ottica pedagogica e moralista di matrice puritana.

  •  L’immagine della donna che dondola la culla che si ripete 26 volte durante tutto il film a scandire i passaggi da un’epoca all’altra, con ritmo crescente nel finale. È un’immagine simbolica, fuori contesto, non narrativa ma didascalica sulla quale ci soffermeremo più diffusamente oltre (Montaggio: funzione sintattica e funzione semantica).
Un ulteriore spunto di analisi mette in relazione i due kolossal di Griffith. Intolerance esce nel mezzo del primo conflitto mondiale, in un Paese ancora neutrale, inneggiando alla pace e alla concordia fra i popoli con enfasi retorica. Nel finale si immagina la discesa delle armate celesti a fermare “l’inutile strage”. Anche il finale di Nascita di una nazione si caratterizzava per questa visione religiosa: dopo la doppia luna di miele (naturalmente i figli della famiglia del nord si sposano con quelli della famiglia del sud), Ben e Elsie si trovano a guardare oltre la romantica scogliera in cui sono seduti e a “Osar sognare un giorno dorato dove la guerra bestiale non governerà più. Al suo posto il dolce Principe nelle Sale dell’amore fraterno della Città della pace”, come recita la didascalia, e quindi l’immagine infernale di un Lucifero che fustiga tanti tristi dannati si trasforma in quella diafana di un paradiso terrestre su cui si staglia Cristo benedicente. 
Su questa struttura escatologica dei film di Griffith si sofferma il regista sovietico Ejzenstejn, il quale, pur considerando il regista americano uno dei più grandi al mondo, sottolineava l’ideologia che caratterizzava il suo cinema e che a suo avviso emergeva proprio dalla struttura manichea presente sia a livello narrativo che compositivo. Nei film di Griffith, nella lotta che vede contrapporsi bianchi e neri, oppressori e oppressi, il regista russo vede in atto le dicotomie e le ingiustizie del mondo capitalista di cui il regista americano è espressione e che emerge anche compositivamente nella forma stessa del montaggio che aveva contribuito a diffondere e standardizzare. Per Ejzenstejn, questa lotta, questa dicotomia è analoga a quella prodotta dai due spazi propri del montaggio alternato: da una parte gli inseguiti dall’altra gli inseguitori, da una parte i neri dall’altra i bianchi, da una parte gli oppressi dall’altra gli oppressori, da una parte gli schiavi dall’altra i padroni. Una volta che i due spazi convergono uno sull’altro e si ha il salvataggio o la cattura, ciò avviene necessariamente a scapito di uno dei contendenti. Le famose scene della liberazione finale da parte del KKK della città e dei resistenti sudisti assediati dall’esercito di colore diventano esemplificative anche in questo senso: è uno scontro drammatico fra due colori, quello bianco e quello nero, alla fine del quale non c’è nessuna sintesi risolutiva ma semplicemente la sconfitta del secondo ad opera del primo e la sua esclusione dal quadro che aveva fino allora “usurpato” (i demoni neri scappano nella foresta travolti dall’assalto dei cavalieri bianchi). In questa dinamica, la sintesi degli opposti non può aver luogo, né a livello formale né a livello sociale, se non in un ideale oltremondano in cui gli oppressi finalmente otterranno la giustizia divina e gli oppressori la giusta condanna. Ma è in questo mondo, per il regista rivoluzionario sovietico, che la giustizia, la sintesi degli opposti deve aver luogo, attraverso il socialismo e il suo corrispettivo cinematografico, da lui teorizzato e realizzato. (vedi le pagine dedicate ad Ejzenstejn






3 commenti:

  1. The Last of Us (Naughty Dog, 2013) è stato una pietra miliare nello stabilire i videogiochi come potenti mezzi di narrazione audiovisiva. È interessante andare a rilevare le strategie cinematografiche che vi sono state impiegate, accanto a quelle ludiche, per una resa d’impatto della sua storia; e, viceversa, come poi si sia comportato il recente adattamento seriale dallo stesso titolo a opera di HBO (2023): cosa è stato possibile ricavare dall’esperienza del successo del gioco, in termini di efficacia comunicativa?
    Ai fini di questo commento, propongo l’analisi di un segmento particolarmente rilevante di entrambe le opere, con speciale attenzione al modo in cui è gestito uno dei trope fondamentali del linguaggio filmico: il montaggio a struttura tripolare del last minute rescue.

    In un mondo ormai collassato sotto il peso di una tremenda infezione fungina che tramuta gli esseri umani in zombie, Joel, un uomo indurito dagli orrori a cui ha dovuto assistere nel tempo e che ha dovuto anche perpetrare, scorta in un pericoloso viaggio attraverso gli Stati Uniti la quattordicenne Ellie: deve consegnarla alle Luci, un’organizzazione che potrebbe concepire una cura per il morbo, visto che, caso unico, la piccola vi risulta immune. Questo viaggio riempie nel videogioco un minimo di quindici ore di gameplay, facilmente dilatate da missioni fallite da riprendere dall’inizio ed esplorazioni minuziose; nella serie, le puntate sono nove, con una durata media di un’ora ciascuna. Dopo tanto tempo passato a vedere i protagonisti conoscersi, litigare, affezionarsi in maniera indissolubile, si ha l’arrivo alla destinazione e la doccia fredda (attenzione, spoiler!): Joel scopre che, per lo sviluppo del vaccino, Ellie dovrà subire un’operazione fatale al cervello. Separato dalla ragazzina e scortato via da coloro che la tengono in custodia, non sa impedirsi di iniziare a lottare per tornare indietro e salvarla.
    Nell’impostazione di un film d’azione classico, che punti a un crescendo d’adrenalina verso il salvataggio, questo sarebbe il momento in cui lo scorrere del tempo T inizia a essere frammentato in almeno tre spazi: S1 di Joel, S2 di Ellie, S3 dei dottori che devono operarla (cui aggiungere un moltiplicarsi di altri spazi se si contano le guardie che accorrono a fermare l’uomo). La domanda implicita: “Joel (S1) arriverà da Ellie (S2) prima che l’operazione (S3) inizi?”. Di fatto, nel videogioco, la sequenza non è una cutscene, cioè un filmato indipendente, ma una sezione di gioco, in cui ci viene dato il compito di manovrare Joel – ovvero, il suo è l’unico spazio in scena. La tensione si sposta, inevitabilmente, sulla necessità di sopravvivere per arrivare fino in fondo: il tempo T, in realtà, è gestito dal giocatore, che non arriverà mai “troppo tardi” – il gioco non consente questa diramazione narrativa, Ellie non verrà mai operata, soprattutto perché costituirebbe un finale deludente o frustrante; se Joel viene ucciso, si ricomincia e si ritenta. Certo, è possibile che il giocatore voglia fallire, in cuor proprio: è vero, morirebbe Ellie, ma sarebbe un sacrificio necessario per la rinascita dell’intera civiltà umana. Tuttavia, per giungere al finale della storia e non lasciarla in sospeso, non si può far altro che rendersi artefici di una lunga sequela di uccisioni, che culmina in quella del chirurgo, in sala operatoria, che cerca di fermare Joel (strategicamente, anche qui, essa non si risolve in una cutscene, ma sta al giocatore premere il grilletto). La risposta alla domanda formulata sopra, dunque, è un sì inevitabile, di fatto poco messo in dubbio dalla messinscena. [continua]

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  2. (continua) Si direbbe che il last minute rescue sia avvenuto: anche la fase successiva, in cui dobbiamo trasportare Ellie verso un’auto senza farci catturare, ha l’unico esito di giungere integri al parcheggio sotterraneo dell’ospedale. È qui, tuttavia, che il gioco riprende le redini cinematografiche della storia: uno “spazio” antagonista in precedenza non visto, Marlene, leader delle Luci, collide con i già riuniti S1 ed S2 per fermarli e cercare di far ragionare Joel sulla scelta egoistica che sta compiendo. La scrittura del dialogo è intensa, il campo e controcampo si vanno a soffermare su un Joel dall’espressione afflitta con Ellie ancora addormentata tra le braccia… ed è a quel punto che un taglio improvviso ci porta alla soggettiva del guidatore di un’auto, guardando fuori dal parabrezza, il paesaggio esterno che scorre lungo la strada. Avendo già visto spesso Joel in questa situazione, non è una sorpresa vederlo alla guida nell’inquadratura successiva, ma tutto concorre a far emergere il dubbio: alla fine, ha lasciato andare Ellie per un futuro migliore? Dopo lunghi attimi, arriva un sospiro dal fuoricampo dei sedili posteriori: è proprio Ellie, che si sta svegliando. È nel risolvere questo momento così pregnante che abbiamo, infine, un montaggio in retrospettiva: mentre Joel racconta una menzogna alla ragazzina, che non approverebbe mai ciò che ha fatto, le sue parole sono inframmezzate dalla verità – ha ucciso Marlene, a sangue freddo, pur di proteggere quella che ormai è la cosa più preziosa nella sua vita.

    Se, dunque, nell’effettiva corsa al salvataggio il linguaggio e le meccaniche ludiche hanno la precedenza, al fine di continuare a lasciare nelle mani del giocatore i momenti d’azione che definiscono i successi di Joel, e dando per assodato, in base all’affetto costruito nel resto del gioco, che l’urgenza di correre da Ellie sia percepita a priori, The Last of Us va poi a colpire il suo spettatore (tale è, nei momenti di cutscene) dimostrando di comprendere perfettamente il linguaggio filmico necessario a ingannarlo brevemente e tenerlo col fiato sospeso, mescolando le linee temporali e i raccordi nel proprio montaggio.

    È affascinante volgere poi lo sguardo all’adattamento televisivo e notare come in tale sede si sia scelto di replicare quasi pedissequamente le strategie attuate dal materiale di partenza. Anche nella serie, il last minute rescue non si avvale delle sue classiche dinamiche: la sequenza in cui Joel si fa strada nell’ospedale, della durata di circa due minuti, si fa forte, piuttosto, di ellissi, campi lunghi, movimenti di macchina molto veloci o molto lenti, dettagli di volti insanguinati e un accompagnamento sonoro in cui la musica extradiegetica ovatta i suoni di spari e grida per raggiungere una piena sintesi espressiva di un atto violento, spietato (alcune persone si arrendono, ma Joel le assassina comunque a sangue freddo) ma dalle motivazioni profondamente intime ed emotive. In assenza degli stacchi su S2 ed S3, l’accento è posto sull’ambiguità morale di queste azioni, anziché conferire ad esse un tono unicamente eroico e adrenalinico: la forte connotazione drammaturgica della sezione di gioco è colta dai reparti di regia e scrittura e riportata in un medium diverso.
    L’apice successivo al salvataggio vero e proprio, ovvero l’incontro con Marlene, è d’altra parte riportato con fedeltà assoluta, particolarmente riguardo all’intrecciarsi del presente e del passato lasciato in sospeso: una riprova dell’efficacia del materiale di partenza, che non ha avuto alcuna necessità di essere alterato nella sua grammatica di base. (continua)

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  3. (continua) Confronti come questi, a mio avviso, possono raggiungere molteplici scopi: aprono la strada a ragionamenti sulla rimediazione, non solo dei contenuti narrativi ma anche delle tecniche espressive (cfr. Remediation. Understanding New Media, Jay David Bolter e Richard Grusin, 1999); fissano la conoscenza delle strutture filmiche di base grazie ad esempi in cui vengono consapevolmente rimaneggiate, e così rese visibili anche a uno spettatore che vi è talmente abituato da quasi non notarle; aumentano la consapevolezza critica con cui approcciarsi anche ai cosiddetti “nuovi media”, potenzialmente più vicini all’esperienza di un pubblico giovane rispetto al cinema classico – da cui comunque tutto è partito, a riprova della sua rilevanza fondamentale.

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