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venerdì 9 ottobre 2020

3.3.1 Spazializzare il suono

Con l'avvento del sonoro si pose un problema che oggi sembra peregrino, ma non lo è affatto: dove posizionare il microfono, cioè l'orecchio dello spettatore? La scelta più ovvia sarebbe quella di porlo accanto all’obiettivo, corrispettivo del suo occhio. Così come avviene per la nostra testa e come ritroviamo nelle videocamere compatte. Sappiamo però quello che avviene in questo caso: il microfono non scotomizza i suoni come facciamo noi, per lui i suoni più importanti sono quelli che hanno un’intensità in decibel maggiore, non quelli più importanti in relazione al messaggio. E infatti le registrazioni con queste camere risultano buone se non ottime sotto il profilo visivo ma pessime sotto il profilo sonoro (sentiamo in primo piano sonoro i rumori ambiente impastati con gli eventuali dialoghi). La questione si pose allo stesso modo allora: il microfono sul set andava messo vicino alla mdp? Oppure (secondo il modello radiofonico) vicino alla sorgente sonora più importante?  Oppure (teatrale) a metà strada fra i due? Nel primo caso captare la voce del personaggio, elemento più importante in un cinema che si voleva vococentrico (Chion), avrebbe significato sentirla più o meno intensa a seconda dei movimenti del personaggio rispetto alla camera, fino a quasi non sentirla se la distanza si faceva ampia. Sarebbe stata la soluzione più mimetica, di fatto è in questa prospettiva spaziale che percepiamo i suoni del mondo esterno ma, appunto, il microfono non ha facoltà di selezionarli, come il nostro orecchio, e in ogni caso a una certa distanza neanche noi riusciamo a sentire. Porre il microfono a mezza via significava falsificare il punto di ascolto rispetto a quello visivo e non risolveva il problema della intellegibilità rispetto ai suoni ambiente. Di fatto è la soluzione più prossima a un sonoro di tipo teatrale, ma avrebbe significato alterare, come a teatro, l’intensità del parlato. Così si scelse di porre l’orecchio vicino a chi parla, sempre alla stessa distanza, come se gli fossimo addosso anche quando il nostro punto di vista muta la posizione, la distanza. Si scelse cioè la formula che ribadiva la conquista propria del linguaggio cinematografico, quella di uno spettatore ubiquo, ma che proveniva dall’estetica e tecnica comunicativa della radiofonia, che aveva di fatto inventato l’ “ascoltatore ubiquo”. Scelta questa che ebbe importanti conseguenze per il nuovo linguaggio audiovisivo: il cinema sonoro non era solo un’evoluzione del cinema muto, ma un vero e proprio “nuovo” medium, composto di immagini in movimento, lingua scritta, suoni, compresi su di un unico supporto, cioè un medium multimediale.
Per questo motivo alcuni generi/autori scomparvero (la comica) e altri di nuovi emersero prepotentemente (il musical). Non si trattava infatti tanto di aggiungere il suono alle immagini, ma di ripensare tutto il sistema comunicativo messo in atto dall’audiovisione, pena il precipitare (un salto indietro) verso il presunto mimetismo teatrale, come di fatto avvenne nel corso dei primi anni trenta e nei confronti del quale alcuni cineasti opposero un netto rifiuto (il caso più eclatante: Chaplin), si confrontarono pragmaticamente (Lang) e teoricamente (Ejzenstein).   
Sappiamo come Chaplin sia passato con riluttanza al sonoro (Luci della città, 1931 e Tempi moderni, 1936, di fatto sono film muti sonorizzati), e solo nel 1940, con Il grande dittatore, diede voce al suo personaggio, di fatto il testamento della maschera di Charlot che, dopo aver preso a martellate il Kaiser Guglielmo (The bond, 1918) sbeffeggia Hitler, despota e reo di avergli “rubato” i baffetti (Bazin). Lang, con M – Il mostro di Düsseldorf, 1931, e il già citato Testamento del Dottor Mabuse, 1933, si confrontò precocemente e genialmente con le nuove possibilità espressive e narrative del sonoro.
 
Spunti di analisi:
 
M, il mostro di Dusseldorf, F. Lang, 1931
I primi 8 minuti di M, il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang

Con un linguaggio che denota la storica discriminazione del suono rispetto all'immagine in ambito cinematografico, la relazione fra i due medium è posta sempre con il primo ancillare al secondo. Un suono è definito in, off, over rispetto allo schermo/immagine (screen). Cioè come un elemento aggiunto ad essa e non in sé autonomo. Di fatto questa scelta lessicale non solo non rende giustizia all'organico rapporto fra i due, ma rende anche difficoltosa l'analisi. Intanto perché un suono può rivelarsi di una sorgente diversa da quella fatta in un primo momento immaginare allo spettatore (vedi anche l'esempio di Moon River), poi perché si danno situazioni in cui la "posizione" del suono sono indecidibili, e sono le più interessanti, quelle in cui il suono è propriamente cinematografico.  Questo è il caso di M, il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (Germania, 1931), in cui il maniaco infanticida è riconosciuto da un mendicante cieco grazie alla sua inconfondibile impronta sonora (l’abitudine di fischiare un motivetto). La sequenza iniziale, fino all’omicidio della bambina, utilizza una piccola gamma di suoni (le possibilità della banda ottica erano ancora tecnicamente limitate), ma la sua ricchezza espressiva e stilistica in rapporto allo spazio è straordinaria e testimonia la non comune sensibilità del regista tedesco per la nuova tecnologia a disposizione, nonché l’avanzata tecnica di ripresa sonora dei brevetti tedeschi che per anni faranno concorrenza a quella americana (anche su questa nuova “guerra dei brevetti” si potrebbe aprire un interessante capitolo sulle rivalità fra Hollywood e Babelsberg). Tutta la prima parte del film M mette in primo piano la voce. Inizia con una macabra filastrocca durante un gioco di bambini nel cortile di un palazzo, interrotta dall’ordine di una donna, ma che poi riprende fuori campo, mentre la donna si confida con la vicina e quella le risponde “però almeno finché li sentiamo siamo sicure che sono vivi…”. La madre prepara il pranzo per la figlia, suona il cucù, è mezzogiorno. Sul suono dell’orologio si attua un sound-bridge, cioè una dissolvenza sonora che ci conduce all'analogo suono delle campane davanti alla scuola dalla quale escono i bambini. Una bambina fa rimbalzare la palla sul manifesto che promette la ricompensa a chi dia informazioni per catturare il maniaco omicida che imperversa in città. Su quella palla e su quel manifesto incombe l’ombra minacciosa che si rivolge alla bambina con voce suadente (che si può dire: quella voce è in o off?). Intanto a casa i rumori per le scale fanno pensare alla madre che la figlia stia arrivando, ma ogni volta è qualcun altro. La madre è preoccupata. La bambina è a manina con l’uomo che, di spalle, le compra un palloncino, fischiettando (è il primo intervenire della sua impronta sonora: questo fischio di spalle è in o off?). La madre, dalla finestra della cucina, grida il nome della bambina. Lo grida più volte. Risuona sulle scale, fra i panni stesi in soffitta, sul piatto pronto in tavola. Ma la bambina non può sentirla. Una palla, la sua palla rotola fra i cespugli, il palloncino sorridente vola in aria, si impiglia fra i cavi del telegrafo… 
Mazzon: l'incipit di M - F. Lang
La voce, in rapporto allo spazio, trova tutte le sue “declinazioni” naturali, realistiche, ma si avventura anche oltre, in senso fortemente espressivo (il pedofilo che incombe con la sua “ombra parlante” sulla bambina; la voce della madre che dalla finestra della cucina raggiunge, con la stessa intensità, gli angoli più remoti del palazzo, probabilmente di solito frequentati dalla bimba e ora deserti). Il film di Lang è come se (de)scrivesse la grammatica del suono cinematografico. Tutto il film, ma in particolare questi primi 8 minuti rappresentano un vero e proprio corso acceletato sui possibili rapporti fra suono e immagine. Lorenzo Mazzon ha provato a riassumerli in questo breve videosaggio:
 
 
Per quanto riguarda Ejzenstejn, i cui scritti sul film sonoro, come su altri elementi del linguaggio cinematografico, sono molti e molto acuti (raccolti insieme in ), sul film sonoro si espresse già nel 1928, quale primo firmatario (con Pudovkin e Aleksandrov) di un Manifesto sul Phonofilm, noto come Manifesto dell’asincronismo
Il Manifesto si sofferma sulle conquiste linguistiche legate al montaggio, elemento giustamente messo in valore dal cinema sovietico, e sulle negative ricadute di un processo mimetico che, come di fatto avvenne, rischiava di riportare il cinema a un mero teatro filmato. Ma il punto sul quale vale la pena soffermarsi è il terzo, quello nel quale si afferma la necessità di un “contrappunto” fra suono e immagine e che ha reso noto il testo come “Manifesto dell’asincronismo”, creando non poche storture nella sua interpretazione. Infatti, la “non coincidenza fra immagine visiva e immagine sonora” di cui scrivono Ejzenstejn e cofirmatari per esplicitare l’idea di “contrappunto”, non implica affatto l’utilizzo del sonoro in senso antirealistico, come perlopiù poi fu interpretato e ancora spesso si interpreta, ma in una non-coincidenza produttiva e “sintetica” che evitasse l’utilizzo pleonastico del sonoro rispetto all’immagine. Come emerge da altri testi degli stessi Ejzenstejn e Pudovkin (e anche in quelli del coevo Balasz), per “asincronismo” ci si riferiva al suono out o over rispetto all’immagine attraverso il quale il senso dell’immagine veniva “condensato” dall’utilizzo del suono, evitando ulteriori immagini (vedi in particolare l'esemplificazione che ne dà Pudovkin). L’esempio tipico è quello dell'inquadratura di un’automobile verso la quale si dirige il suo proprietario, e che può salire e farla partire senza la necessità di mostrare in successione l’apertura dello sportello, l’accensione del motore, l’avvio dell’auto, ma semplicemente facendo sentire fuori campo i rumori nella loro sequenza e tempo logici (suono off). Oppure il valore che si può fornire alla semplice inquadratura di un alzabandiera accompagnato dal suono marziale di una tromba: tromba e trombettista possono trovarsi off e l’inquadratura riferirsi a una specifica – puntuale - azione, oppure fungere da metonimia/sineddoche a rappresentare lo “spirito di una nazione” in una determinata circostanza, e quindi divenire l’immagine una metafora e la musica della tromba un suono over… a indirizzare lo spettatore sarà il contesto filmico stesso. Sono strumenti linguistici che il primo cinema sonoro, quello hollywoodiano, non aveva ancora posto in essere, rivolto come sempre prima di tutto alla perspicuità e alla trasparenza, ma che di lì a poco diventeranno elementi linguistici comuni, come lo sono tutt’oggi, grazie soprattutto alla nuova generazione di registi europei che, come il succitato Lang, lasceranno per gli USA la Germania e il continente durante gli anni ’30.
 

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