La distinzione fra
MRP e MRI così come la intende Burch è un utile e semplice metodo per
cominciare a discriminare fra le caratteristiche del cinema delle origini da
quello narrativamente e linguisticamente codificato. Definite le prime,
infatti, le seconde emergono per contrapposizione. L’MRP utilizza campi fissi e
totali, cioè uno spazio teatrale in cui è contenuta tutta l’azione (che
necessariamente deve essere semplice e breve per le limitazioni del caricatore
di pellicola e della manovrabilità della macchina da presa), la scena risulta
quindi centripeta, come già evidenziato, cioè autoconclusa, autonoma,
autosufficiente, non rimanda a nessuno spazio al di fuori di essa. La distanza
considerevole rispetto agli attori, tutti in figura intera, necessita
un’amplificazione delle movenze e dei gesti, attraverso una esagerata,
clownesca pantomima. L’azione scenica non ha un rapporto attivo con lo spazio
in cui è contenuta, che si riduce spesso a un fondale dipinto. La luce
necessaria all’impressione della pellicola poco sensibile è quella solare,
filtrata e diffusa da lenzuola, per cui non agisce in senso narrativo e
drammaturgico sulla scena ma si cala uniformemente su di essa, impedendo alla
luce di disegnare percorsi narrativi, drammaturgici, ragion per cui la scena
non è logicamente “centrata” ma solo geometricamente (il centro della ribalta).
Come si può notare, tutti questi elementi si reggono uno con l’altro, derivano
uno dall’altro e riflettono i limiti tecnologici del mezzo e la cultura visiva
dell’epoca (la staticità dello spettatore, l’unità del corpo umano in scena, il
realismo delle proporzioni) più che l’imperizia dei tecnici. Per cui al mutare
di uno di questi fattori gli altri seguono a ruota mentre i primi, “prematuri”,
scostamenti da questo modo di rappresentazione costituiscono piuttosto un
“effetto speciale” che una conquista linguistica.
Per esempio scompaginare le
proporzioni e l’unità corporea all’interno dello stesso quadro non poteva che
essere l’effetto dello strabiliante trucco di un prestidigitatore o l’aberrante
esperimento di uno scienziato pazzo, o le due cose insieme (L’homme à la tête en caoutchouc, Méliès, 1901); o ancora l’unità
spazio-temporale attraverso l’inserzione di un’inquadratura doveva apparire
narrativamente giustificata: la gabbia di un canarino, un gatto o un occhio che
coprissero l’intero schermo prima occupato dalla figura intera della nonna
doveva essere solo la conseguenza logica del giocare del nipotino con la sua
lente di ingrandimento (Grandma’s reading glass, G.A. Smith, 1900).
L’homme à la tête en caoutchouc, Méliès, 1901 |
Grandma’s reading glass, G.A. Smith, 1900 |
In entrambi
questi casi la questione riguarda la possibilità di sfruttare il mezzo per
introdurre qualcosa di nuovo: la segmentazione, mutilazione in corpore vivo; un
salto di proporzioni (gigantismo/nanismo). In entrambi i casi esso avviene
attraverso un intervento che viola l’unità fisica della pellicola/ripresa, nel
primo con l’uso di mascherini e doppia esposizione, nel secondo con inserti. In
entrambi l’effetto è quello della dismisura, di un salto di proporzioni. Non
sono ancora “primi piani”, non è ancora un “montaggio”, ma sono già dei
rapporti narrativi fra sguardi che si incrociano: quello del mago George Méliès
a tu per tu con la propria testa-colosso; quello del bambino e dei giganti che
lo circondano. Viene cioè posta una relazione fra punti di vista antitetici che
mettono in crisi il presupposto di uno spettatore esterno e statico rispetto a
quanto viene proiettato, chiedendogli implicitamente di allontanarsi e
avvicinarsi, cioè di muoversi dal suo posto in platea. Invece lo spettatore
dell’epoca, proprio come nei coevi phantom ride, era al massimo disponibile a
lasciare che il mondo si muovesse di fronte a lui, era questo in fin dei conti
quello che gli chiedevano anche le diverse vues caricate una dopo l’altra al
cinematografo Lumière o nei kinetoscopi di Edison. Anche quando le possibilità
tecniche (in particolare l’introduzione del ricciolo di Latham) permettono di
allungare i tempi di proiezione, in un primo momento si ricorse semplicemente
alla giustapposizione di singole scene in sequenza, chiamate non a caso
“quadri”, come quelli di una moderna via crucis, che fu d’altronde da subito
uno dei soggetti prediletti. Tableaux vivants, ciascuno in se autonomo, si
susseguivano uno all’altro davanti allo sguardo dello spettatore, come gli atti
di una pièce teatrale, con il vantaggio di essere molto più economica: un
teatro dei poveri.
Perché
l’allungamento delle singole proiezioni, grazie all’incollaggio di più pezzi di
pellicola fra di loro, non implica la nascita del “montaggio”, se non sotto il
profilo tecnico. I circa 15 minuti di Voyage dans la lune di Méliès, del 1902,
rappresentano già una lunghezza notevole per l’epoca, ma dal punto di vista
narrativo presenta delle inquadrature che si susseguono cronologicamente l’una
all’altra con le caratteristiche proprie del MRP. A riprova di questa mancanza
ancora di una idea di montaggio narrativo, come comunemente poi verrà intesa,
le due inquadrature che illustrano il viaggio e l’allunaggio. La prima, la
celebre “carrellata” a svelare un disco di luna nel quale il proiettile
colpisce va a colpire l’occhio dell’astro antropomorfizzato, e la seconda,
nella quale avviene l’allunaggio. In termini linguistici ci troveremmo di
fronte a un “falso raccordo”, essendo l’azione unica ma presentataci due volte.
Méliès non si pone questo problema di continuità e di grandezze scalari, per
lui la prima inquadratura presenta il “viaggio del missile sulla luna”, la seconda
“l’allunaggio e discesa degli astronauti”, secondo le sue esigenze di chiarezza
rispetto al pubblico e occasione per sfruttare i trucchi fotografici di cui
ormai è maestro e che da lui sono attesi.
Il missile "alluna" due volte nel Voyage di Méliès: si può parlare di "falso raccordo"?
Sempre nell’ottica
di evidenziare il percorso che in quegli anni si deve colmare per raggiungere
un’idea di montaggio cinematografico come efficace dispositivo linguistico
caratterizzante il nuovo medium e non solo come espediente
tecnico/spettacolare, val la pena di soffermarsi su due brevi film americani di
Edwin Porter, entrambi del 1903: The great train robbery (12’) e Life of an american fireman (6’).
Nel primo, celebre anche per la novità del soggetto (la
rapina a un treno condotta da fuorilegge del west), all’epoca probabilmente di
attualità e che avrà poi una straordinaria fortuna nel genere western, gli
elementi di interesse sotto il profilo del montaggio non mancano. Intanto
utilizza in due inquadrature un mascherino con funzione narrativa, dando vita e
movimento a un décor altrimenti limitato a un fondale dipinto, e inserendo
quello che è per certi aspetti il primo close up della storia del cinema (ma su
questo torneremo in seguito). La cosa che in primo luogo interessa far notare è
come le 13 (14) inquadrature del film (più il cartellone iniziale) siano
costituite tutte da piani totali, di un’ampiezza cioè necessaria affinché gli
esistenti e l’azione messa in atto sia di volta in volta tutta compresa
all’interno del quadro. Il montaggio non costituisce un elemento di
composizione drammaturgico-narrativa ma è utilizzato per dare continuità alle
singole azioni rivolte a un pubblico posto in sala come di fronte alle diverse
scene di una narrazione teatrale. Il montaggio, anzi, presenta delle
incongruenze spazio-temporali che non saranno poi più ammesse, se non per una
volontaria scelta “antimimetica”. Inoltre il montaggio in un’occasione è qui
utilizzato con una per noi evidente funzione di effetto speciale quando,
nell’inquadratura 4, il macchinista viene picchiato da uno dei fuorilegge e poi
scaraventato giù dal treno: il momento del passaggio dalla zuffa sopra il
carbone a quello in cui il macchinista è scaraventato giù, per quanto
mimetizzato da un preciso stop-and-go sulla posizione del fuorilegge, è svelato, oltre che
dalla consistenza del fantoccio sostitutivo, dal mutare del paesaggio
circostante (con e senza pali del telegrafo). Se la qualità dell’effetto speciale poteva forse essere
sufficiente per il pubblico dell’epoca, la cosa che meglio fa emergere la
distanza che separa una semplice giustapposizione di inquadrature da una
consapevole ricostruzione di una virtuale unità spazio-temporale è la scelta di
presentare come temporalmente successive inquadrature appartenenti a spazi
diversi ma a momenti temporalmente coincidenti. Il primo caso, meno evidente, è
quello per cui l’arresto del treno per fare rifornimento d’acqua durante il
quale i fuorilegge salgono furtivamente a bordo (inq. 2), è posto come
successivo alla sua ripartenza dalla stazione in cui l’impiegato viene
aggredito e legato (inq. 1): le due azioni (fermarsi alla stazione del treno
per far salire e scendere i passeggeri e fare rifornimento d’acqua) avvengono
contemporaneamente ma vengono presentate come se fossero successive. Se un
dubbio su questo primo caso può sussistere (si potrebbe sostenere che il treno
si è successivamente fermato, lungo la strada, a fare rifornimento d’acqua), il
secondo è decisamente lampante: le inquadrature dalla 4 alla 10 seguono le
varie fasi della rapina e fuga dei fuorilegge; con la 11 torniamo
all’inquadratura 1 con la liberazione del capostazione; con la 12 alla festa
nel saloon interrotta dall’allarmi portato dal capostazione; con la 14 siamo
nel pieno di un inseguimento. A prima vista siamo di fronte agli inseguitori
che si sono messi al galoppo sulle tracce dei rapinatori, ma ben presto ci
rendiamo conto che i primi a passare di gran carriera a cavallo sono i
rapinatori stessi e che gli inseguitori gli sono alle calcagna e gli sparano
contro. Siamo cioè passati direttamente dallo spazio-tempo (d’ora in poi S-T)
dell’allarmi al saloon allo S1-T1 del tallonamento dei rapinatori a cavallo!
Non è tanto il problema di aver fatto ellissi di tutte le azioni intermedie
realisticamente compiute dai “buoni” per raggiungere i “cattivi”, ma il fatto
di non aver intervallato le inquadrature della rapina e fuga almeno con la 11 e
la 12. Porter, cioè, non agisce sul montaggio delle inquadrature per creare un
minimo di alternanza fra S-T e S1-T1 (con T e T1 in tutto o in parte
sovrapponibili), ma abbia seguito prima una linea spazio-temporale per poi
“tornare indietro” e seguire l’altra. Solo apparentemente di altra natura la
questione del “primo piano” finale, quello del cowboy (…. Broncho billy? Tom
Mix?) che punta la pistola e spara fumo verso la mdp. Nel catalogo Edison per
gli esercenti delle sale questa inquadratura era prevista indifferentemente
come prima o come ultima, stava alla scelta dell’operatore decidere dove
collocarla. Insomma era un “effetto speciale”: sia perché il pistolero “spara al
pubblico in sala”, chiamandolo direttamente in causa, abbattendo la “quarta
parete” (un po’ come sembrava abbatterla il treno dei fratelli Lumière di pochi
anni prima), sia perché il pistolero è finalmente riconoscibile nelle sue
fattezze fisiche perché ravvicinato fino a tagliargli la parte inferiore del
corpo che, oltre a violare la sua integrità fisica ne ingigantisce le
dimensioni rispetto ai corpi ripresi prima (o dopo). Non era insomma una
inquadratura che poteva collocarsi fra le altre perché avrebbe “s-travolto” la
diegesi, le coordinate scalari in cui si esplicitava.
Per molti aspetti analoghe e ancora più "incomprensibili" per gli standard narrativi del MRI sono le scelte di montaggio di alcune scene
del coevo Life of an American Fireman: tralasciando per il momento altri aspetti interessanti legati
alle scene-inquadrature che precedono, si veda come la narrazione del
salvataggio a opera dei pompieri della donna e della sua bambina nella casa in
fiamme venga restituita, nella sua completezza, “prima” dall’interno della casa
e “poi” dall’esterno! Senza tener conto delle evidenti incongruenze dal punto
di vista delle modalità e tempistiche dell’intervento ripetuto (continuity), sta di fatto
che Porter non pensa minimamente di alternare il “dentro e fuori” dell’azione
rappresentata ma, di nuovo, segue l’azione prima in S-T e poi in S1-T1 (con T
necessariamente uguale a T1). Si potrebbe ritenere che Porter “semplicemente”
non fosse in grado di gestire tecnicamente una tale struttura spazio-temporale
o se ritenesse che il pubblico non ne sarebbe stato in grado (allo stesso modo,
nella letteratura fino all’ ‘800 le linee narrative erano gestite ciascuna su
ampi blocchi temporali e non si poneva il problema di giustificare un “colpo di
scena” andando a ritroso a ritrovare una linea narrativa precedentemente
lasciata in sospeso).
Life of an American Fireman, E. Porter, 1903. |
The Great Train Robbery, E. Porter, 1903. |
The Great Train Robbery: la sequenza delle inquadrature, il loro rapporto temporale, un'ipotesi di "montaggio alternato". |
Chiaro che il
problema non era tecnico, bensì linguistico-comunicativo, ed è confermato dal
fatto che il regista non ha problemi a utilizzare il montaggio “creativamente”
in altre situazioni.
Già la prima inquadratura di Fireman presenta un uomo (il fireman) seduto in ufficio alla propria scrivania: tutto il decor, perfino il fascio di luce della lampada da tavolo, è posticcio e disegnato sul fondale. Non è chiaro se l’uomo stia pensando o dormendo, di fatto nel buio del lato destro dell’inquadratura si anima un tondo con la scena di una donna che mette a letto la propria bambina dopo averle fatto recitare le preghiere: vedremo trattarsi poi della stessa stanza in cui avrà luogo il salvataggio dall’incendio (e della stessa coppia di personaggi salvati).
È quindi l’antefatto a quanto succederà poi, dopo che, attraverso il – da notare – primo piano di un congegno di allarme antincendio che viene azionato da una mano anonima, scatterà l’azione di soccorso. Questa è data perlopiù attraverso inquadrature, presumibilmente estratte da una o più esercitazioni dei vigili del fuoco dell’epoca, dei pompieri che escono dalla caserma con le loro autobotti e pompe a vapore trainate da cavalli al galoppo attraverso le vie della città. Anche per queste azioni, come nel già citato Méliès di Voyage, nessun problema a fornirle in più inquadrature che, se non addirittura dei “falsi raccordi”, costituiscono quanto meno delle ripetizioni non necessarie ma certamente rare e spettacolari per il pubblico dell’epoca.
Ma torniamo al
“primo piano” del congegno di allarme antincendio: esso costituisce l’unica
inquadratura “fuori scala” inserita nel film, sicuramente più “economica”
rispetto a una inquadratura di un edificio in fiamme (anche considerando poi la
successiva scarsa resa visiva del medesimo), certamente necessaria per
giustificare narrativamente la velocità di risposta dei pompieri. Come per il
precedente primo piano del cowboy, anche questo costituisce di fatto un
“effetto speciale”, che questa volta trova una seppur timida collocazione
narrativa all’interno del racconto invece che essere relegato ai “margini”
della narrazione vera e propria.
(Sulla questione vedi anche la versione del film della Cinémateque, commentata inquadratura per inquadratura da didascalie)
Morte dello spettatore teatrale e nascita dello spettatore cinematografico
Morte dello spettatore teatrale e nascita dello spettatore cinematografico
L’incongruenza di
questi “primi piani” e le incongruenze spazio-temporali riscontrate provengono
da uno stesso problema di fondo, che non è (da questi esempi ormai dovrebbe
essere assodato) tecnico, ma “linguistico-comunicativo”. Cioè “dove” collocare
lo spettatore rispetto alla narrazione. Fin dalle prime proiezioni pubbliche,
lo spettatore a cui ci si rivolge è quello teatrale: le proiezioni avvengono in
piccoli teatri, café-chantants, tendoni da fiera. I film vengono “portati”,
proiettati, al pubblico allo stesso modo con cui si porterebbe in tournée una
compagnia teatrale (e molto spesso infatti funzionavano come sostituti in
absentia, vedi per esempio il trasformista Leopoldo Fregoli con il
Fregoligraph; lo stesso Méliès crea i propri film per arricchire i suoi
spettacoli di magia al teatro Houdini). Lo spettatore mimato dalla mdp è quello
che è seduto stabilmente sulla sua poltrona, frontale ed esterno al film
proiettato come lo sarebbe di fronte a una compagnia di attori che inscena una
pièce sul palco e che non porta lo spettatore da un luogo all’altro ma porta
quel luogo davanti allo spettatore (con i cambi di scena). Man mano che le
inquadrature da una sola (gli “atti unici” delle vuèes Lumière, dei primi film
Méliès ecc.) iniziano a moltiplicarsi, eccole divenire “quadri”, vere e proprie
“viae crucis” presentate allo spettatore (e infatti i primi blockbuster furono
proprio illustrazioni di testi sacri, in primis la passione di Cristo), che non
si deve spostare fra esse ma viceversa, sono i quadri che si inscenano davanti
allo spettatore immobile, come dei tableaux vivants. Ogni “quadro” è così in sé
autonomo e autosufficiente e al contempo “modulo” di una struttura narrativa
più ampia. Il problema però si pone quando si voglia sfruttare le qualità
“microscopiche” del mezzo fotografico, cioè quelle capacità sfruttate fin da
subito in ambito scientifico (ambito nel quale il cinematografo di fatto muove
i primi passi, basti pensare agli esperimenti di Muybridge) di offrire una
visione ravvicinata (dettaglio), precisa, intima, ai soggetti fotografati: non
potendo “spostare lo schermo”, si sarebbe dovuto “spostare lo spettatore”. La
resistenza è forte, ecco allora che queste immagini ravvicinate vengono
narrativamente giustificate come qualcosa di “eccezionale”, come “effetti
speciali”, utilizzando mascherini e doppie esposizioni. La lente della nonna,
piuttosto che la testa di gomma di Méliès, giustificano in questo modo l’essere
fuori scala, l’essere porzioni staccate da un corpo eppur ancora in vita (la
testa mozzata di Méliès è della stessa “natura” dell’assistente tagliato in due
da una sega durante gli spettacoli di prestidigitazione). In un dispositivo
(sala-scena-pubblico) teatrale i salti di scala, i primi piani (questo è la
testa gigante di Méliès) sono “impossibili”, per poterli “naturalmente”
inserire sarà necessario un cambio di paradigma: non potendo cambiare la sala e
la scena (il fallimento commerciale dei peep-show di Edison ne erano la
dimostrazione), per sfruttare appieno le caratteristiche del mezzo si doveva…
cambiare lo spettatore, educarlo a un nuovo ruolo rispetto al nuovo medium.
La morte dello spettatore teatrale è quella che metaforicamente attua quel pistolero in margine a Robbery: “so che sei lì, è a te che mi miro. Non puoi startene a distanza di sicurezza, se io non posso venire da te sarai tu a venire da me, non ci può essere separazione fra noi, che tu lo voglia o meno”. Assumendo su di sé l’occhio della mdp lo spettatore entra stabilmente nella narrazione; la sua poltrona, il suo sguardo viene messo lì dove può meglio interpretare i fatti che gli vengono narrati. Prima lo si inserirà in un contesto (establishing shot, la scena in campo totale dove si svolge l’azione), poi lo si avvicinerà o allontanerà rispetto a questo per dargli la migliore visuale possibile. Lo spazio verrà così frammentato a uso e consumo dello spettatore, che non si sposterà più solamente all’interno di una scena ma fra una scena e l’altra, ubiquo. Il rapporto fra oggetto guardato e chi lo guarda è alla base della narrazione: un qualsiasi paesaggio, oggetto, esistente, “mondo” entrerà in relazione, dialogherà con lo sguardo che lo percepisce. Sarà anzi il mondo stesso a guardarlo a sua volta: l’oggetto inquadrato rimanda al soggetto che lo guarda: l’inquadratura di un tostapane presuppone uno spettatore, il controcampo sullo spettatore è lo “sguardo del tostapane” sullo spettatore stesso. La relazione fra le due inquadrature può anche non essere “reale” (presa da contesti spazio-temporali diversi), ma è comunque “logica”. Lo aveva evidenziato Kuleshov con il suo mitico (perché probabilmente mai veramente messo in pratica) esperimento: l’inquadratura di uno stesso volto in primo piano può entrare in relazione empatica con qualsiasi oggetto gli venga posto di fronte attraverso il montaggio (effetto kuleshov). In quella cesura fra le due inquadrature interviene lo spettatore, a “sanarla”, offrendogli un senso dal quale non può esimersi. Più lo spettatore è smaliziato, più la sua capacità di dare senso a inquadrature irrelate aumenta. Il mastice del “raccordo di sguardo” è un collante che si adatterà e si adatta tutt’oggi a tutte le “superfici” (device, format)/narrazioni.
Un'interessante modalità di sintetizzare i contenuti del post è offerta da D. Marinkovic, in questo videosaggio da lui prodotto.
Continua con: Griffith e la nascita del MRI
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