Se
mettere in quadro, inquadrare, significa scegliere quale porzione di mondo
riprodurre e rappresentare, che ci si trovi di fronte a uno spazio reale o solo
immaginato, si dovrà necessariamente scegliere “quanto” spazio verrà
considerato da quell’inquadratura. Se ci poniamo dietro a un mirino, le scelte
che possiamo fare riguardano l’ampiezza e la profondità di quello spazio,
l’inclinazione e l’angolazione. In una formula: il punto di vista (pdv). La
scelta del pdv dipende da tanti fattori, da alcune necessità tecniche (per
esempio l’illuminazione o lo spazio fisico a disposizione), da alcune regole
espressive più o meno consolidate. Premesso questo, è altrettanto vero che in
epoche e format diversi, si è assistito a scelte di inquadrature che hanno
superato o ignorato questi limiti con risultati estetici ed espressivi che poi
hanno fatto scuola. Se regole ci sono, sono fatte insomma per essere infrante,
e si possono infrangere se coscientemente si conoscono e a ragion veduta, cioè
di ottenere il valore espressivo e comunicativo che si ritiene necessario.
La
cosiddetta scala dei campi e dei piani è un’altra di quelle strutture formali
che il linguaggio audiovisivo ha ripreso dalla fotografia, e poteva avere anche
un suo senso fintanto che il cinema era costituito da brevi film di un’unica
inquadratura, come le vues Lumière, in cui di fatto la macchina da presa si
limitava a inserire la variabile tempo all’interno di uno spazio pre-visto
prima di dare il via alla manovella (le mdp lumière non avevano mirino, per
definire lo spazio dell’inquadratura l’operatore poteva intervenire solo prima
delle riprese, a macchina aperta). Ma nel momento in cui il montaggio prende
piede, le grandezze dei campi e piani trovano senso solo nel rapporto reciproco
fra le inquadrature, in funzione cioè narrativa e/o espressiva. Un primo piano
“fotografico” può non risultare tale all’interno di una sequenza filmica.
Quelle che andremo insomma a elencare sono delle categorie generali di
riferimento ma la questione più importante, sia in fase di (pre-) produzione
che di analisi, è chiedersi di che tipo di inquadratura c’è bisogno, quali
elementi filmici e profilmici sono in essa indispensabili perché “funzioni” e
quindi, di converso, perché l’autore ha scelto quella inquadrature, o quella sequenza
di inquadrature. A nostro avviso non si tratta tanto della “grandezza” dello
spazio inquadrato, quanto il grado di “distanza affettiva” che si vuol produrre
e restituire: la maggiore o minore intensità emotiva, la maggiore o minore
vicinanza ai fatti narrati, la distanza o partecipazione che si vuole ottenere
dallo spettatore. Deleuze chiama “immagine-affezione” quella che porta un
qualsiasi soggetto inquadrato a divenire un primo piano:
Partiamo da un esempio che, per l’appunto, non è quello del volto: un
orologio a pendolo che ci viene presentato parecchie volte in primo piano.
Un’immagine come questa ha appunto due poli. Da una parte ha delle lancette
animate da micro-movimenti […]: le lancette entrano necessariamente in una serie
intensiva che segna una salita verso…, o tende verso un versante critico,
prepara un parossismo. D’altra parte ha un quadrante come superficie ricettiva
immobile, lastra ricettiva d’iscrizione, suspense impassibile: è unità
riflettente e riflessa. […] È proprio questo insieme di unità riflettente
immobile e di movimenti intensi espressivi che costituisce l’affetto. Ma non è
forse la stessa cosa che un Volto in persona? Il volto è quella lastra nervosa
porta-organi che ha sacrificato l’essenziale della propria mobilità globale, e
che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di piccoli movimenti locali che
il resto del corpo tiene normalmente nascosti. Ogni volta che scopriremo in
qualche cosa questi due poli, superficie riflettente e micro-movimenti
intensivi, potremo dire: questa cosa è stata trattata come un volto, essa è
stata “involtata” o piuttosto “voltificata” e ci fissa a sua volta, ci guarda…
anche se non assomiglia a un volto. Così è per il primo piano dell’orologio a
pendolo. Per quel che riguarda il volto stesso, non si dirà che il primo piano
gli faccia subire un trattamento qualsiasi: non vi è primo piano di
volto, il volto è in se stesso primo piano, il primo piano è da sé solo volto,
e ambedue sono l’affetto, l’immagine affezione.
(G. Deleuze, L'immagine-movimento, pp. 109-110)
Allargando
il discorso: è un rapporto strumentale al messaggio quello che mi fa scegliere
un’inquadratura di una grandezza oppure di un’altra.
Campi
e piani
L’unità
di misura relativa per definire più o meno ampio lo spazio inquadrato è la
figura umana. In base a quanto ampio appaia o si presuma essere lo spazio
rispetto a questa grandezza si distinguono tradizionalmente i “campi” e i
“piani” (dal francese plan).
Campo
lungo e lunghissimo (c.l. e c.l.l.)
Campo lungo: un fotogramma del più famoso scenario del cinema hollywoodiano, la Monument Valley, in Sentieri selvaggi (J. Ford, 1956) |
È la
veduta, il paesaggio naturale o antropizzato più o meno vasto in cui la figura
umana è appena percepibile o addirittura assente, sostituita da immense
praterie, foreste pluviali, jungla, anche urbana, d’asfalto. è l’ambiente a
essere protagonista, connota anche metaforicamente i luoghi in cui un evento si
dispiega o si dispiegherà e di cui l’uomo è solo una delle tante, piccole,
componenti. Nel cinema western, per esempio, è lo spazio naturale, selvaggio,
in cui l’epopea del colono e della frontiera assume i suoi connotati di lotta
per la conquista alla civiltà (strade, commerci, pascoli, città) di uno spazio
“vuoto”. Tanto la maestosità dei luoghi quanto i nativi che li abitano
rappresentano la wilderness a cui si
contrappone il germe, minuto ma più o meno tossico, più o meno virulento, certo
resistente, della civilization. A
questa contrapposizione si può ridurre tutta l’epopea del western classico e di
tutti i racconti di avventura. Quando il mito della frontiera si dissolve,
quando non ci sono più “spazi vuoti” nella cartografia del pianeta, questa
contrapposizione si sposta negli spazi metropolitani, dove il territorio è
conteso fra bande rivali, fra i detentori della legge e i “banditi”. Di questo
mutamento di paradigma, da un lato l’insuperato, Uomo che uccise Liberty Valance,
di Ford, dall’altro il genere gangster e poliziesco.
Campo
medio / campo totale (c.m. / c.t.)
Campo totale: la cucina in cui si svolge il dialogo fra le protagoniste di Mudbound (D. Rees, 2017) e la capanna in cui si ritrovano i pistolero in C'era una volta il west (S. Leone, 1968) |
Preferibile “totale”, perché “medio”, di per sé, non significa nulla: “medio” rispetto a cosa? Il termine implica un confronto, non permette una identificazione assoluta di questa ampiezza spaziale. Totale, offre invece un’idea di completezza molto produttiva. È uno spazio di per sé autonomo, nel quale la narrazione può svolgersi nella sua interezza. Ambiente, oggetti, figure animate sono proporzionalmente presenti in funzione del loro ruolo scenico. È lo spazio narrativo per eccellenza, un ambiente totalmente in mano alla commedia umana, nel quale i protagonisti possono espletare tutte le loro funzioni drammaturgiche. Completezza e autonomia rimandano alla scena teatrale e in effetti è lo spazio per eccellenza del dramma naturalistico. Di fronte a un piano totale, lo spettatore in sala è come a teatro, seduto nei posti migliori, dai quali nulla gli sfugge. Presume di avere una conoscenza “totale” di ciò che avviene sullo schermo/palcoscenico, è “libero” di seguire lo svolgersi del dramma o di vagare sul contesto, soffermarsi sulle figure o sugli oggetti di contorno. Questa vicinanza fra spazio totale e spazio teatrale spiega il suo ampio utilizzo nei primordi del cinema perché, in effetti, limitava lo straniamento dello spettatore rispetto alla novità del medium. La definizione di totale rimanda poi a quella che sarà, rispetto ad esso, la frammentazione dello spazio condotta dal decoupage classico: la vicenda narrata è introdotta con un piano totale (establishing shot) che viene poi suddiviso, frammentato in tanti piani più piccoli, a seguire l’azione dei singoli personaggi e oggetti che occupano e interagiscono in scena.
Per antonomasia è quella umana, dalla testa ai piedi misura di tutte le
cose, ma non è un’esclusiva: a seconda del soggetto può riferirsi a un animale
o oggetto. Se il campo totale è lo spazio delle relazioni, questo è lo spazio
dell’individuo, la centralità è quella del personaggio rispetto a un ambiente
che viene, di fatto, escluso, messo in secondo piano. Da questa grandezza in
poi, lo spazio inquadrato non farà che accentuare le caratteristiche fisiche e
psichiche dell’individuo (dell’animale, dell’oggetto).
Piano americano (p.a.)
Piano americano: Clint Eastwood, in un film... che non nomino nemmeno tanto è famoso! |
“Quella ad altezza cintura era per il revolver, dunque il sesso…”, dice
Godard in Histoires du Cinéma (1998). Si riferisce ovviamente al genere western, così
riconoscibile nella sua tipicità hollywoodiana, da assumerne la nazionalità. È
l’inquadratura più dichiaratamente maschilista: il ritratto del cowboy procede
dalla pistola al cappello; da quella e dall’abilità ad usarla – letteralmente e
metaforicamente “sparare” – si riconosce la sua virilità.
“…ma quello dell’uomo perché le donne erano inquadrate all’altezza del
petto”, per completare la precedente citazione dal regista francese. Dalla vita
in su, dunque. Procedendo in questo gioco, se dalla diversa altezza del taglio
possiamo definire un personaggio, allora sarebbe meglio distinguere fra la
morigerata moglie e madre del pioniere, che porta gonne lunghe fino a terra,
per la quale sarà necessaria la figura intera, e la sgualdrina da saloon, che
si manifesta a sufficienza nella sua guepière, quindi basta una mezza figura
mentre il resto… è dato all’immaginazione.
Primo piano (p.p. e p.p.p.)
Sul primo piano tanto si è scritto e tanto si scrive, non solo in
ambito cinematografico, perché la sua definizione e il suo significato sono
problematici. Tutti, intuitivamente, sanno cos’è un primo piano, ma tutti ne
danno una interpretazione diversa. Cos’è un primo piano? Cos’è il primo piano
di un essere umano? Il volto? Quando ancora si andava dal fotografo per la foto
da mettere su un documento, lo stanzino o l’angolo del negozio adibito era
composto sul fondo da un liscio lenzuolo chiaro e opaco, di tinta neutra. Due
spot di luce a destra e sinistra di uno sgabello regolabile in altezza. Ci si
sedeva sopra, il fotografo invitava a regolare l’altezza rispetto
all’apparecchio fotografico posto di fronte su un treppiede, a diminuire
l’ingombro delle spalle girando il busto di tre quarti tenendo la testa rivolta
verso l’obiettivo, ad assumere un’espressione rilassata, eventualmente
sorridente. Una foto in posa, ma non una foto segnaletica. Entrambe servono a
renderci identificabili, ma quella che facevamo dal fotografo pretendevamo (e
pretendiamo ancora oggi, anche se la produciamo con altri mezzi e per altri,
molti altri fini) fosse un nostro ritratto,
ossia che donasse di noi una rappresentazione morale, caratteriale. Cioè che
rispettasse i tratti ideali, più presupposti che reali, della nostra identità
da presentare al prossimo. Impresa quindi impossibile, e non per difetto
tecnico, ma per due ragioni molto semplici: una di ordine percettivo, da cui
procede l’altra, di ordine comunicativo. Perché, se non idealizzata, abbiamo
sicuramente una percezione riflessa, invertita di noi stessi, quella che ci
restituisce quotidianamente lo specchio e attraverso la quale abbiamo imparato,
fin dall’infanzia, a riconoscerci. Le proporzioni, i rapporti spaziali fra le
parti che costituiscono il nostro volto ci appaiono necessariamente invertite e
quindi fatichiamo ad accettarle quando ci vengono riproposte nella loro reale
disposizione, cioè quella che percepisce il mondo esterno. La stessa cosa
avviene per la propria voce, che risuona diversa alle nostre orecchie rispetto
a quella dell’ascoltatore, semplicemente perché il suono che di essa noi
percepiamo è il risultato composito della fonazione e della vibrazione degli
organi interni e non della sola vibrazione dell’aria quale percepito
dall’interlocutore. Che un modello o uno speaker siano a loro agio con la
propria immagine o voce meccanicamente riprodotta non è tanto perché esse siano
oggettivamente belle, ma perché hanno superato, attraverso l’esercizio e un
consapevole distacco, l’autoreferenzialità e considerando quel volto e quella
voce come altro da sé, come strumento di relazione che va educato per
rispondere alle diverse esigenze comunicative. Si tratta dunque di “recitare”
la parte prevista, affidandosi alle peculiarità tecniche del medium e alle
competenze professionali di chi lo gestisce (fotografo o fonico che sia). Il
risultato ottimale, quello che fa la differenza estetica, procederà dal
connubio fra le capacità attoriali del soggetto e quelle tecnico-artistiche del
mediatore.
Quale primo piano?
La grandezza “classica” del primo piano è quella che include la testa fino alle spalle comprese. Perché le spalle? Perché altrimenti il soggetto sembra decollato, come se la testa fosse stata orribilmente staccata dal corpo. Eppure oggi nei manifesti pubblicitari, al cinema e in TV i primi piani sono ancora più stretti, escludono anche il collo e non creano questa sensazione. È che questi ritratti agiscono in un contesto culturale e in un tipo di messaggio diverso da quello del ritratto ottocentesco. “Economizzano” il volto agli elementi più significativi, gli occhi e la bocca, per cui basta uno spazio compreso fra il mento e le sopracciglia. Il pubblico smaliziato di oggi sa benissimo che quel pezzo di testa non è stato ritagliato dal corpo vivente dell’attore. Ma non è sempre stato così. Pensiamo alla carica distruttiva dell’idea di integrità del corpo umano che ha avuto, soprattutto per il popolino frequentatore delle fiere di inizio ‘900, trovarsi di fronte a un uomo che si muove e gesticola senza le gambe o addirittura senza il busto. Gli aneddoti di tal tipo si trovano a iosa nei manuali di storia del cinema, soprattutto nei primi, e hanno oggi per noi il sapore di leggende metropolitane sul supposto realismo del cinema. D’altro canto è vero che per molti di questi spettatori l’unico ritratto che possedevano era quello di famiglia, una foto o un dagherrotipo con il padre e la madre seduti al centro e intorno figli e figlie, tutti insieme, rigorosamente in figura intera. Ecco anche perché la maggior parte dei primi film utilizzava la figura intera e il piano totale, perché, lo abbiamo già detto, riproducevano un sistema iconico e narrativo ri-conoscibile dal pubblico, quello teatrale. I primi piani delle origini rispondevano piuttosto alla nostra idea di mezza-figura, e solo col tempo si sono andati ravvicinando.
La grandezza “classica” del primo piano è quella che include la testa fino alle spalle comprese. Perché le spalle? Perché altrimenti il soggetto sembra decollato, come se la testa fosse stata orribilmente staccata dal corpo. Eppure oggi nei manifesti pubblicitari, al cinema e in TV i primi piani sono ancora più stretti, escludono anche il collo e non creano questa sensazione. È che questi ritratti agiscono in un contesto culturale e in un tipo di messaggio diverso da quello del ritratto ottocentesco. “Economizzano” il volto agli elementi più significativi, gli occhi e la bocca, per cui basta uno spazio compreso fra il mento e le sopracciglia. Il pubblico smaliziato di oggi sa benissimo che quel pezzo di testa non è stato ritagliato dal corpo vivente dell’attore. Ma non è sempre stato così. Pensiamo alla carica distruttiva dell’idea di integrità del corpo umano che ha avuto, soprattutto per il popolino frequentatore delle fiere di inizio ‘900, trovarsi di fronte a un uomo che si muove e gesticola senza le gambe o addirittura senza il busto. Gli aneddoti di tal tipo si trovano a iosa nei manuali di storia del cinema, soprattutto nei primi, e hanno oggi per noi il sapore di leggende metropolitane sul supposto realismo del cinema. D’altro canto è vero che per molti di questi spettatori l’unico ritratto che possedevano era quello di famiglia, una foto o un dagherrotipo con il padre e la madre seduti al centro e intorno figli e figlie, tutti insieme, rigorosamente in figura intera. Ecco anche perché la maggior parte dei primi film utilizzava la figura intera e il piano totale, perché, lo abbiamo già detto, riproducevano un sistema iconico e narrativo ri-conoscibile dal pubblico, quello teatrale. I primi piani delle origini rispondevano piuttosto alla nostra idea di mezza-figura, e solo col tempo si sono andati ravvicinando.
Il primo piano ci rappresenta, perché la nostra cultura ha dato al volto il compito di esprimere la gran parte dei nostri moti interiori, che emergono dalla smorfia, dall’angolo della bocca, dal sorriso, dalla lacrima. Tutta una serie di micromovimenti che non possono essere percepiti alla distanza del piano totale. Finché il linguaggio cinematografico non si appropria del primo piano, esprimere sentimenti e stati d’animo era gioco di mimo, di recitazione artificiosa e melodrammatica. Un moto d’amore si poteva esprimere allargando le braccia e alzando la testa verso l’amata come verso una dea, in ginocchio. Occhi e bocca dovevano essere grandi, fortemente truccati e ombreggiati per emergere per contrasto dal bianco pesante del cerone. Il volto assomigliava piuttosto alla maschera del teatro classico, con i tratti principali caratterizzanti i ruoli. Quando entra in campo il primo piano, la maschera sembra scivolare via, sciogliersi, il trucco si fa più discreto, la recitazione più contenuta: è tutta un’altra storia.
Il primo piano non riusciva ad entrare nel cinema primitivo perché
costituiva una mutazione improvvisa e mostruosa di proporzioni, non era così
ovvio che si volesse porre l’attenzione su qualcuno, anche perché, in un
contesto decisamente e naturalmente narrativo, non c’era spazio per la
sospensione del racconto, per la sottile descrizione, propria del primo piano.
Fra tempo della storia e tempo del racconto l’uguaglianza era costitutiva e
necessaria, lo spazio era quello della scena, la scena teatrale, il tempo
cronologico. Per il cinema delle origini il primo piano interviene nel film
come “effetto speciale”, come “trucco” per stupire lo spettatore, al pari del
numero dell’illusionista che sega a metà la soubrette senza provocarle alcun
danno (L'homme à la tête de caoutchouc, Méliès, 1901; The big swallow,
Williamson, 1901; l’inquadratura finale di The
great train robbery, Porter, 1903).
Il primo piano, mutando radicalmente le proporzioni del corpo umano, è
una stasi del racconto, uno spazio non direttamente narrativo ma riflessivo, espressivo,
sul quale poi molti registi e attori creeranno la loro fama. Avvicinarsi al
volto significa cercare di carpirne i segreti, lo sguardo dell’attore tradisce
volontariamente ciò che passa per la testa del suo personaggio. Gli donerà
fremiti, pieghe del viso, lampi negli occhi. Darà a quel volto un’intensità che
si amplifica per sottrazione. Introdurre il primo piano nel cinema ha
significato rivoluzionare la tecnica attoriale, limitare gli sfoghi del corpo,
togliergli le ampie movenze drammatiche di ascendenza teatrale. I sentimenti
del personaggio si rendono visibili attraverso micromovimenti, acquistano in
intensità man mano che il volto riesce a creare un messaggio attraverso
un’apparente immobilità.
Primo piano e paesaggio
Primo piano e paesaggio
In questa “intensità data dall’energia potenziale impressa in una massa
apparentemente immobile” (Deleuze), si ritrova la parentela fra il primo piano
e l’inquadratura con la quale si è aperta questa rassegna: il campo lungo, il
paesaggio. Molti gli isomorfismi fra i due. Il volto si presenta come un
paesaggio composto di pianure/guance, monti/naso, altipiani/fronte,
laghi/occhi, ruscelli/lacrime, nuvole al vento/ciocche di capelli... È uno
spazio contemplativo, fuori dal tempo. Tutto sembra immobile, ma allo stesso
tempo indicare il movimento: le nuvole soffiate dal vento, la luce del sole che
si specchia nei laghi, il ruscellare delle acque, le ombre che crea sull’altipiano
una nuvola di passaggio. Non è un caso che l’arte letteraria e pittorica abbia
sempre legato un volto, un sentimento, a un paesaggio. Per analogia o per
contrasto, il paesaggio non è mai indifferente allo sguardo dello
spettatore, ha sempre mimato i suoi stati d’animo, fino alle punte espressive
dell’arte e della letteratura ottocentesca. In questi termini, qui
drasticamente riassunti, si dipana la riflessione sul rapporto volto/paesaggio
di due grandi teorici del cinema, Balazs e Ejzenstein. La semplificazione di
questo discorso in quei volti che diventano un tutt’uno con il paesaggio.
Volto e paesaggio fusi insieme in un trompe l'oeil: S. Dalì, Paranoic visage, 1935. |
Quanto scritto finora dovrebbe rendere più chiaro il passaggio di
Deleuze citato in apertura: quand’è che ci troviamo di fronte a un primo piano
rispetto a un campo totale? Perché, al di fuori di un contesto risulta così
difficile definirlo? Perché è il contesto che dà le chiavi di lettura per
interpretare quell’inquadratura. È un documentario sulle valli del trentino? Ci
saranno “primi piani” di intere vallate, una dopo l’altra, e i villaggi che
ospitano, il fortino o la malga, saranno “dettagli”. È il nostro interesse, la
vicinanza emotiva rispetto al soggetto che fa la scala dei piani. Ciascuno
guarda dal proprio finestrino (inquadratura) e vede in lontananza (campo
lungo), nella savana, muoversi delle giraffe, scattare delle gazzelle. Ci sono
degli struzzi vicino a quel cespuglio che abbiamo appena sorpassato. “Ah!”
Qualcuno grida perché sul suo finestrino, improvvisamente e furiosamente si è
gettato un leone affamato. Ha preso un bello spavento, ma per fortuna i
cristalli sono resistenti e nessun animale potrà mai entrare nel pulmino. Così
è al cinema: siamo al sicuro, guardiamo ciò che avviene laggiù, in Africa, dove
magari non andremo mai, ma tutto sembra così reale. Tanto che se
all’improvviso, con un primo piano, vediamo comparirci davanti le fauci aperte
di un animale feroce, che salto sulla poltrona!
Vicino – Lontano. Così, non è il caso di prendere troppo sul serio il valore di una
definizione, il termine esatto con cui indicare un’inquadratura, se non quale
elemento di una più ampia descrizione tecnica (sceneggiatura o sceneggiatura
desunta). I vari esercizi di riconoscimento delle inquadrature disseminati in
vari strumenti di didattica dell’audiovisivo hanno un valore puramente strumentale
e mnemonico, ma non sono poi così utili per capire quello che si sta effettivamente
guardando o si vuole descrivere.
Su questi argomenti, il videosaggio di N. Finotti può essere un valido riassunto:
Oppure questo di M. Huici, che apre anche all'Effetto Kulesov:
I CAMPI E I PIANI
RispondiEliminaLe affinità tra fotografia e cinematografia sono rilevabili approfondendo le tematiche e le teorie della fotografia e del cinema; in particolare quelle che ci parlano dei campi e dei piani, elementi fondamentali per la conoscenza del linguaggio audiovisivo. Così come la fotografia, a partire dalla sua invenzione, ha dovuto nel corso del tempo, affrancarsi dalla preminenza forzosa alla pittura, nell’arte filmica degli esordi molti presupposti discendono dal mondo teatrale e dalla relazione con gli spettatori, prima di trovare un proprio equilibrio e un linguaggio definito.
I campi e i piani si avvalgono dell’esperienza e della potenza della fotografia che si innova nel cinema, definendo i paesaggi e i personaggi dove l’unità di misura è sempre la figura umana. Queste strategie costituiscono gli scenari, le ambientazioni, gli sfondi che preparano, introducono e dispongono gli spettatori alla narrazione filmica, alla conoscenza dei vari personaggi, consentendo la nascita e la crescita di un rapporto empatico con il pubblico che lo guiderà fino alla fine del film.
Qui di seguito vengono descritti i principali presupposti filmici relativi ai campi e ai piani, tecniche cinematografiche che sono alla base delle conoscenze in materia audiovisiva.
Il campo lunghissimo
• Inquadratura che ritrae un paesaggio molto esteso, una modalità “panorama”, all’interno del quale la figura umana e di dimensioni ridotte. Questa procedura è presente in cinematografia specialmente nel genere western ma non solo. Fornisce al discorso filmico spaziosità e libertà e trasferisce nel pubblico un effetto fascinazione per le stesse motivazioni.
Il campo lungo
• Inquadratura che mette in risalto il territorio ma che si relaziona con la presenza umana che viene meglio identificata al suo interno.
Il campo medio
• Inquadratura all’interno della quale è molto presente l’ambiente circostante ma l’attenzione si direziona verso la figura umana.
Il campo totale
• Inquadratura dove i personaggi sono ripresi nelle loro azioni e l’ambiente circostante è limitato.
La figura intera
• Inquadratura rivolta a evidenziare l’intera figura del o dei personaggi che ne individua la fisicità, dalla testa ai piedi, creando di conseguenza nello spettatore curiosità per una successiva ricerca di un profilo caratteriale e psicologico.
Piano medio o americano
• Inquadratura del personaggio dai fianchi in su, il cui intento, perlomeno nei film western è quello di mostrare il protagonista mostrando le fondine delle pistole; in altri ambiti cinematografici è una struttura comunque molto utilizzata che restituisce allo spettatore una distanza minore rispetto alla figura intera e maggiore rispetto al mezzo busto.
Primo Piano
• Inquadratura che va ad incorniciare e mettere in risalto il volto o poco più, inteso in cinematografia come massimizzazione della drammatizzazione del viso.
Il primissimo piano
• Inquadratura del volto a tutto campo, mira alla massimizzazione della drammatizzazione del volto nel quale possiamo riconoscere lo stato emotivo del o della protagonista e contestualizzarlo all’interno del racconto filmico.
Dettaglio – Particolare
• Il dettaglio sottolinea una parte del corpo umano a differenza del particolare che ritrae un elemento non umano.
Il primo piano umano nel multimediale contemporaneo: spunti e riflessioni
RispondiEliminaAttraverso la storia del cinema, numerosissime tecniche espressive che ad oggi risultano consolidate e scontate hanno in verità dovuto affrontare un percorso di evoluzione, rottura rispetto ai canoni precedenti e normalizzazione progressiva. L’inquadratura in primo piano è uno degli esempi più rilevanti di questo tipo di processo: da un effetto speciale straniante è divenuta una delle peculiarità più studiate e raffinate del linguaggio filmico. L’avvento di estetiche successive, come quella televisiva e quella del web, ha ulteriormente trasformato la percezione di questa “unità operativa” (cfr. Unit Operations. An Approach to Videogame Criticism, Ian Bogost, 2006) presso il pubblico, che vi è ormai abituato, e che in mancanza di strumenti di analisi critica può anche glissarvi sopra come se si trattasse di una soluzione scontata. Questo non vuol dire che il cinema contemporaneo non tenga conto di questi cambiamenti e non possa trovare nuovi significati, nuovi utilizzi, nuove sfumature per il primo piano, che a sua volta migra attraverso i media arricchendoli con il suo portato espressivo consolidato.
L’immagine di un volto frontale, ravvicinato e che si rivolge direttamente allo spettatore, come detto, passa innanzitutto alla normalità grazie alla televisione, specie nei programmi di giornalismo e informazione. Approda poi su Internet e in particolare su YouTube, come la modalità più semplice e intuitiva per farsi vedere e conoscere e per parlare in maniera personale, priva di filtri, a un pubblico di pari.
Immagini: Esempi tratti da due video di Yotobi, star di YouTube Italia che ha raggiunto un’enorme popolarità grazie alle sue spiritose recensioni di film di serie B e allo streaming di videogiochi. Nel reinventarsi in tempi più recenti, alla ricerca di un format più vicino ai suoi nuovi interessi, non a caso ha dato inizio a una rubrica di “Late Night Show”, in cui utilizza il suo vero nome di Karim Musa per una “persona” giornalistica in uno studio che richiama fortemente la televisione divulgativo-informativa americana.
All’interno di film recenti ambientati nella contemporaneità, come Free Guy (Shawn Levy, 2021), è curioso notare come agli streamer venga affidato un ruolo di commento, cronaca e finestra sull’opinione pubblica pari, se non superiore, a quello dei telegiornali; contemporaneamente, entra nel cinema l’estetica web, con le sue chat, le sue finestre e soprattutto i suoi primi piani diretti, sfrontati, che fissano la telecamera e si rivolgono a un pubblico immaginario ma anche a quello vero, insigniti di una sorta di garanzia di trasparenza.
Immagini: Immagini tratte da Free Guy, in cui le imprese del protagonista (il personaggio di un videogioco che prende coscienza di sé) sono commentate sia dalle reti generaliste sia da un pubblico di appassionati gamer.
(Continua) Con questa presunta sincerità e quest’inquadratura solo in apparenza scontata è certamente possibile lavorare per contrasti. Un esempio di un certo impatto si può trovare nella serie coreana Hellbound (Netflix, regia di Yeon Sang-ho, 2021), in cui un insieme di terribili eventi soprannaturali spinge la popolazione mondiale nel panico; nel momento in cui la scienza e il raziocinio non offrono risposte, si diffondono religioni e teocrazie nuove di zecca e soprattutto una mentalità settaria, che in Corea trova il suo guru proprio in uno streamer truccato come uno sciamano al neon. Il personaggio e l’inquadratura aggrediscono lo spettatore, urlano, si avvicinano e allontanano tra zoom repentini e l’oscillare di una recitazione esagitata: la verità assoluta di cui l’uomo si fa portatore, il suo ruolo di coordinatore di azioni violente e notizie rilevanti per il “culto” non hanno nulla dell’amichevole semi-oggettività cui il web ci ha abituati, ma vi è un tentativo, tramite un quadro ricco di elementi perturbanti, di evidenziarne le ombre.
RispondiEliminaImmagine: Il guru della setta violenta degli Arrowhead di Hellbound, Lee Dong-wook.
Il primo piano che parla allo spettatore può anche, ormai, essere slegato da giustificazioni narrative strette attorno alla cornice di YouTube o altre piattaforme. È uno strumento che è necessario usare con intelligenza e parsimonia, ma che per esempio è divenuto uno dei tratti caratterizzanti della serie House of Cards (Netflix, direzione di Beau Willimon, 2013-2018), in cui il cinico e gelido protagonista interpretato da un intenso Kevin Spacey rivolge spesso massime sul potere e sulle proprie strategie direttamente alla macchina da presa, penetrandola con la propria spietata intelligenza.
Immagine: Un esempio di monologo “in camera” del personaggio di Frank Underwood tratto dalla seconda stagione di House of Cards.
Oppure, si consideri il caso del videogioco Detroit: Become Human (Quantic Dream, 2018), un’avventura interattiva incentrata sul tema della vita artificiale: la schermata del menù iniziale è dominata dal viso stupendo, per quanto finto, di una robot che dapprima dirige il giocatore nell’interfaccia, dandogli il benvenuto, e poi si ripresenta a ogni nuovo avvio dando anche commenti sul ritmo della partita o sui suoi dettagli (“Ah, è già di ritorno? È stata una pausa breve”, sorride, se si è spento e riacceso il gioco in un intervallo appunto ristretto di tempo). Magistrale, da un punto di vista filmico, è la gestione dei micro-movimenti del suo viso, della sua espressione, che da un iniziale impatto sereno e perfetto si anima di inquietudini man mano che i protagonisti della storia del gioco iniziano a portare avanti una lotta per rivendicare il diritto degli androidi a provare sentimenti: l’intenso realismo dei suoi fremiti, degli occhi che si abbassano, delle labbra che esitano su una parola in più riescono a donare anche a un simulacro virtuale di plastica (quindi doppiamente artificiale) un’umanità perturbante che cerca di toccare la percezione emotiva ed etica del giocatore.
Immagine: Il menù iniziale di Detroit: Become Human, con il suo modello iperrealistico di una splendida androide messa a benvenuto e guida per il giocatore.
La normalizzazione del primo e primissimo piano non deve dunque trarre in inganno: non solo esso mantiene tutta la potenza che ha acquisito nella storia del cinema, ma ha la possibilità di assumere anche nuovi connotati – di presunta oggettività e in parallelo di mistero, di magnete e chiamata verso lo spettatore, di simbolo di nuove figure del tessuto sociale – che vanno ad arricchirlo e che vale la pena indagare, essendo il linguaggio audiovisivo tutt’altro che statico ed esaurito nei suoi codici comunicativi.