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domenica 11 ottobre 2020

3.4 La voce-soggetto, acusma, deacusmatizzazione

La voce-soggetto
Rendere con il semplice suono e prospettive sonore lo spazio immaginario è una modalità che il cinema riprende dal linguaggio radiofonico dei radiodrammi, processo di sintesi moderno e dinamico per eccellenza, come già dichiarava Marinetti nei suoi esperimenti, estremi, di radiodrammi futuristi. E come per i suoni ambiente e per le musiche anche le caratteristiche della voce cinematografica nascono e si affinano a partire dall’esempio e dalla tecnica radiofonica. Superati i dubbi in merito alla posizione del microfono rispetto alla scena (il cinema mainstream puntò sul microfono in prossimità della sorgente sonora/parlante più importante), la voce del radiodramma e quella dello speaker forniranno al cinema le caratteristiche della cosiddetta “voce-soggetto”, così come la definisce Chion: massima vicinanza al microfono, mancanza di riverbero, opacità (mancanza di inflessioni e dislalie). Queste caratteristiche andranno man mano migliorando con l’evoluzione tecnologica dei microfoni e degli impianti di registrazione, mixaggio (dal 1933 la registrazione del sonoro su più tracce e quindi il doppiaggio), riproduzione e amplificazione del suono, ma restano a tutt’oggi valide (e sono semmai arricchite dal passaggio dal mono alla stereofonia e poi dal surround ai film-concerto di oggi).
Massima vicinanza al microfono: è il cosiddetto “primo piano sonoro” e rimanda direttamente al mezzo radiofonico. È la voce che si presenta chiara, piena, non inglobata ma inglobante lo spazio visivo in cui il parlante è visibile.
Mancanza di eco/riverbero: perché se ci fosse segnalerebbe lo spazio in cui risuona per arrivare fino a noi, nel quale cioè sarebbe inglobata, distante. In termini comunicativi, esprimerebbe il “rumore” (noise) della trasmissione più o meno difficile, più o meno distante per raggiungere il nostro orecchio. Come avviene nei radiodrammi, per rendere l’idea che un personaggio si trova in un pozzo, in un tunnel, in una stanza vuota; oppure la voce resa metallica da interferenze o difetti di trasmissione: una voce al citofono, al telefono (on the air). Ma può essere anche uno spazio “virtuale”, quello “interno” del monologo e dei pensieri (che appunto risuonano “dentro” la testa, come fosse una zucca vuota).
Spot Haribo Starmix (2019)
Mancanza di inflessioni e dislalie: perché la caratterizzerebbero troppo, dandoci un’immagine "mentale" del personaggio, fino allo stereotipo o al comico (l’accento dialettale, la balbuzie).Come nell'esempio estremo e riuscito di questo spot di caramelle gommose:
Volutamente in queste descrizioni si è fatto riferimento agli effetti contrari che il mancato utilizzo delle regole comporta, per evidenziare le variabili considerate in fase di registrazione e mixaggio per assicurare il mimetismo o antimimetismo che si può produrre. La voce-soggetto è, insomma, la voce più “oggettiva” possibile. Paradosso solo apparente perché, se così non fosse, non potremmo spiegarci l’ampio e convincente uso che se ne fa in fase di doppiaggio e la carriera del doppiatore nemmeno esisterebbe se non ci fosse la possibilità di “avvitare” (come si dice in gergo tecnico) una voce se un qualsivoglia corpo. Scelta che a volte implica decisioni “impolitiche” e conseguenze nella caratterizzazione stessa del personaggio. Un esempio concreto da un Paese come il nostro che doppia tutte le voci dei film stranieri (e di alcuni “attori” poco fonogenici nostrani): quando nel 1995 si trattò di doppiare il film di Michael Mann, La sfida, con protagonisti Al Pacino e Robert De Niro, al direttore del doppiaggio si pose un problema increscioso: tradizionalmente i due attori, che non avevano mai recitato prima in uno stesso film, avevano lo stesso doppiatore italiano, il compianto Ferruccio Amendola (come anche Sylvester Stallone, Dustin Hoffman, Peter Falk…). Quale dei due avrebbe vinto quest’altra "sfida"? La spuntò il personaggio interpretato da Robert De Niro, anche per la primazia che lo collegava ad Amendola rispetto ad Al Pacino (che fu così doppiato da Giancarlo Giannini). La dizione e la professionalità dell’attore romano vestiva con la stessa disinvoltura le corporature e i lineamenti di personaggi molto diversi fra loro, e bastava un’accentuata inflessione romanesca per passare da questi all'italocubano Tomas Milian di Er Monnezza. Un’inflessione della voce più o meno spinta ci porta già a calarci in un contesto, geografico, culturale, sociale che sia. Fino al comico e al parodistico: il gigante nerboruto che parla con una timida, femminea vocina, o il bimbo con voce baritonale. Oppure all’horror: chi non ha provato un brivido freddo nel sentire la piccola Regan (Linda Blair doppiata per la versione italiana da Monica Gravina) parlare posseduta da Pazuzu/Laura Betti in L’esorcista, di Friedkin (1973)?
La voce demoniaca: Psycho di Hichcock...
Se l’esorcismo ha successo, quella voce, che non appartiene al corpo di Regan, ma l’ha “riempita” di sé e ne fuoriesce fra spasmi e vomito, si spegnerà e Megan tornerà ad esprimersi con la sua vocina ancora acerba di preadolescante. Come fa quella voce demoniaca a possedere quel corpo? Come si è agito dal punto di vista tecnico-linguistico per ottenere quell’effetto? E non ci riferiamo ovviamente alle qualità timbriche della voce di Bazuzu. Per rispondere affrontiamo prima un altro esempio, celebre e precedente a questo, di un’altra voce che giunge a possedere un corpo.
Le voci in Marion... (Psycho, A. Hitchcock, 1960)
Marion sta fuggendo in auto per raggiungere il fidanzato con i soldi rubati all’agenzia dove lavora. È buio, i fanali delle auto che incrocia lampeggiano sul suo volto in primo piano, alla guida. Delle voci maschili e femminili (il principale, la collega, l’acquirente derubato) si susseguono mentre la sua espressione muta fino a un ghigno, il suo sguardo è fisso davanti a sé. Le sue labbra non si muovono, ma non abbiamo nessun problema a interpretare quelle voci: “risuonano nella sua testa” mentre immagina quello che sarà successo dopo che  avranno scoperto la sua sparizione improvvisa. L’eco profonda dalla quale quelle voci emergono ci indicano lo spazio virtuale, la mente di Marion, dove quei dialoghi hanno luogo. D’altronde le riconosciamo, le abbiamo sentite prima, voci soggetto avvitate ai rispettivi corpi, così come abbiamo sentito la voce di Marion, non paragonabile a queste. Andiamo ora a pochi minuti dalla fine del film, per un confronto illuminante. 
[spoiler alert!]  
La sequenza scelta si apre con lo psichiatra criminale che riassume al commissario e ai parenti di Marion la vicenda di Norman Bathes, ormai incarcerato, spiegando loro come ormai il fantasma della madre si fosse definitivamente impossessato di lui “...ha avuto il sopravvento…”. Entra un poliziotto, che chiede se può portare a Norman la coperta che ha chiesto perché “dice di avere freddo”. Con lui ci spostiamo nel corridoio della prigione e da qui assistiamo alla scena della guardia che entra con la coperta nella cella e una voce femminile, chiara e presente (una voce-soggetto), da dentro la cella dice «Grazie». Nessuno nel corridoio fa mostra di esserne sorpreso, ma lo spettatore l’ha sentito chiaramente, è una voce femminile quella che è uscita dal fuoricampo della cella di Norman. Forse c’è qualcuno con lui? Lo spettatore ritorna con il pensiero a tutti i discorsi sulla duplice personalità dell’assassino e sul fatto che egli sia ormai succube della personalità più forte, quella della Madre… 
....e la voce che possiede Norman (Psycho, A. Hitchcock, 1960)
Nell’inquadratura successiva, la figura di Norman avvolto nella coperta conferma che era stato proprio lui a ringraziare e intanto una voce parla da (su?) quel volto, la stessa voce che prima ha ringraziato. L’inquadratura somiglia sempre di più a quella di Marion, descritta precedentemente; ma mentre prima le voci diverse che passavano su quel volto erano facilmente, realisticamente, collocate e giustificate dallo spettatore, questa voce mette i brividi. 
Perché essa non ha le caratteristiche della voce-interna, ha invece tutte quelle di una voce-soggetto, ma il volto di Norman non la “parla”, non la può parlare, sia perché non muove le labbra, sia perché quelle labbra appartengono comunque a un corpo maschile. È il corpo di una marionetta quello che abbiamo di fronte, mossa da un ventriloquo che ha finito con l’abitarla (e Rick Altman definisce la voce cinematografica tout court “voce di ventriloquo” perché non appartiene mai ai corpi che vediamo sullo schermo, ma all’altoparlante posto dietro: R. Altman, Moving lips: cinema as ventriloquism, in Yale French Studies, n. 60, 1980, pp. 233-240.). Hitchcock compie una delle operazioni più perturbanti della storia del cinema intervenendo su un solo codice sonoro, quello del riverbero. Eliminando il riverbero, Hitchcock crea una situazione sonora agghiacciante, che lascia aperto il film al mistero e al soprannaturale. 
...e Psycho di Gus Van Sant
Caso più unico che raro, questo esempio permette di avere la controprova. GusVan Sant nel 1998 fece un remake (anzi un vero e proprio calco) del film a partire dalla medesima sceneggiatura utilizzata da Hitchcock, compiendo rispetto a questa solo alcune varianti e fra queste proprio la scena finale. Per cominciare, quando la guardia va a portare a Norman la coperta, lo spettatore non rimane fuori dalla cella, sul corridoio, ma assume la soggettiva di Norman, al quale la guardia porge la coperta e, al suo “grazie”, si volge a guardare verso la mdp, un po’ sorpreso un po’ scocciato. Quindi quel “grazie” con voce femminile l’abbiamo sentito proprio tutti (e dovremo presumere che è stato pronunciato dalla bocca di Norman). Nelle inquadrature che seguono, il calco con l’originale è rispettato, ma non il sonoro: la voce femminile della madre echeggia impastata a un’altra voce, maschile, quella di Norman, che ripete le stesse parole, come messa in abisso. 
Le voci di Norman in Psycho di G. Van Sant (1998)
Se nell’originale la "sgrammaticatura" aveva creato l’effetto soprannaturale, in questo scialbo remake l’echeggiare delle due voci sul volto muto di Norman ci offre un finale conciliante, diagnostico: le due voci rimbalzano nel cervello collassato dello schizofrenico Norman. La scelta tecnico-estetica di Hitchcock al contempo rivela il sistema di convenzioni che stanno dietro al supposto realismo cinematografico. Non c’è niente di naturale nemmeno nel sonoro, non ci sono attori in carne e ossa a parlare, ma una serie di tecniche sonore, di “regole grammaticali” analoghe a quelle del MRI talmente acquisite dallo spettatore da essere percepite come naturali. Ogni suono, al cinema - lo si dimentica troppo spesso - è perlopiù aggiunto al film in fase di postproduzione, e ogni suono inserito o scartato risponde a certe esigenze, che possono essere realistiche, espressive, simboliche ecc.
 
 
Dove collocare la voce? Acusma e deacusmatizzazione
Di fatto, la “conciliazione” finale con lo spettatore nel Psycho di Van Sant consiste nella possibilità che gli viene data di “collocare” quella voce, quell’impasto di voci, in uno spazio verosimile: la mente malata di Norman. Perché una voce è tanto più “potente” quanto meno sia possibile collocarla spazialmente. “Acusmatica” la definisce Chion, riprendendo un termine e una pratica pitagorica, cioè, una voce senza corpo, “libera di vagare sullo schermo … è questa la voce cinematografica per eccellenza, mentre le altre rimandano a forme precedenti… il teatro, l’opera, il music hall" (Chion). Ha dei superpoteri perché può attraversare senza problemi lo spazio e il tempo. Pensiamo alla voce “divina” per eccellenza, quella over del narratore, che non occupa lo spazio e il tempo diegetico che ricuce insieme con la sua voce. Una voce che parla da un’altra dimensione, un vero e proprio aldilà nei casi in cui a narrare è un “fantasma”, che sia il cadavere nella piscina in Viale deltramonto (1950) di Wilder, oppure la suicida della serie Desperate housewives (2004-2012). 
 
"Morto che parla": il narratore in Viale del Tramonto e in Desperate housewives

Quando però questa voce trova un luogo fisico verisimile in cui collocarsi ecco che allora si “deacusmatizza” e perde i propri poteri, o comunque li ridimensiona: essi diventano misurabili, quantificabili, assorbibili dal contesto. Questa “transustanziazione” trova un esempio che potremmo definire addirittura didascalico (per la presenza di una tenda, come nella pratica epicurea) nell’incontro-scontro finale di Dorothy con il Mago di Oz, nell’omonimo film del 1939: Dorothy e i suoi strani amici sono ritornati dal “potente Mago di Oz” dopo aver sconfitto la malvagia strega dell’Ovest e si aspettano la ricompensa pattuita. Il mago si presenta con i suoi consueti attributi: l’ologramma di un volto mostruoso che fluttua fra fumo e bagliori e una voce potente e cavernosa che echeggia fra le alte volte del tempio. Le richieste della strana combriccola non vengono accolte dalla voce del mago, semmai procrastinate. All’insistenza il mago risponde offeso e minaccioso…
La voce dietro la tenda: il Mago di Oz, Fleming, 1939.
Intanto il cagnolino di Dorothy, indifferente a quella voce, trotterella verso una tenda al lato della sala e con i denti la ritrae svelando quello che vi si cela dietro: il potente mago di Oz si rivela essere una macchina scenica e un microfono che amplifica e distorce la voce del Professor Marvel (factotum della Città di Smeraldo). Scoperto, il mistificatore cercherà di ridare voce e dignità al “potente mago di Oz…”. Ma il trucco non funziona più, e le sue ultime parole al microfono si spegneranno perdendo potenza ed eco, avvitandosi al corpo dell’illusionista con le caratteristiche proprie di una, normale e qualunque, voce-soggetto, che, alle accuse della delusa Dorothy, ammette (battuta fra le migliori mai scritte): “No, non sono un uomo cattivo, sono solo un pessimo mago”. Come si sta poco a perdere i superpoteri: basta un suono che ci riporti a una quotidiana corrispondenza sinestesica per togliere al mondo la sua magia, poesia, lati oscuri, comicità o grottesco.
 
 

 

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