Si ritorna dunque alla musica. Dal periplo effettuato fra gli elementi del sonoro, le sue caratteristiche e funzioni dovrebbero apparire ora più chiare, ma anche più complesse e variabili rispetto alle immagini a cui è associata. Il maturato convincimento del potere deformante, mistificatorio, “dopante” che la musica esercita sullo spettatore dell’opera audiovisiva, portò registi come Bresson a escluderla del tutto dai propri film, salvo quella diegetica, in nome di una purezza e specificità assoluta del linguaggio audiovisivo rispetto agli altri (R. Bresson, Note sul cinematografo):
La musica prende tutto il posto e non accresce il
valore dell’immagine alla quale si aggiunge.
Genericità della musica che non
corrisponde alla genericità di un film. Esaltazione che impedisce le altre
esaltazioni.
Musica: isola il tuo film dalla vita del tuo film (voluttà
musicale). È un potente modificatore e persino distruttore del reale, come
l’alcol o la droga.
Ragioni di un rifiuto che può essere anche condivisibile, ma che al contempo spiegano il perché raramente venga attuato nel cinema mainstream, proprio per la sua volontà/necessità di tenere aperti se non accentuare nello spettatore quei canali emotivi ed empatici a cui la musica, associata alle immagini, tanto facilmente riesce ad accedere. E proprio il tentativo di definire "scientificamente" i diversi gradi di connessione che musica e immagini possono stabilire fra loro è uno degli aspetti su cui si è in modo originale soffermato un regista e teorico del cinema come Ejzenstejn.
Il montaggio verticale
Seppur criticato negli anni da fronti opposti delle avanguardie della critica testuale, prima per eccesso di formalismo (secondo Adorno/Eisler - La musica per film, 1975 - il regista sovietico ha semplicemente “trovato una somiglianza fra linee plastiche e struttura musicale”), poi viceversa per ingenuità e pressapochismo dai fautori dell’analisi semiotica, il "metodo" proposto da Ejzenstejn e noto come Montaggio verticale (id., in S.M. Ejzenstejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia, 1986) mantiene ancor oggi la sua vitalità e produttività, tanto sul piano analitico che su quello della prassi produttiva. Attraverso l’analisi di una sequenza del proprio Alexandr Nevskji (1938), quella dell’attesa della battaglia sul lago ghiacciato, il regista offre un metodo di indagine del rapporto fra immagine e musica che ha il pregio di potersi applicare a qualsiasi tipo di musica associata alle immagini (originale o di repertorio) e di non risolversi in un mero giudizio estetico ma invece utile tanto nell’analisi ex-post quanto nella valutazione ex ante, in fase produttiva, delle musiche e degli effetti sonori da associare a delle immagini per ottenere un determinato effetto.
All’interno del corposo saggio Il montaggio verticale, dall'edizione italiana del quale traiamo le citazioni che seguono, Ejzenstejn evidenzia come con “il passaggio dal montaggio del film muto al montaggio di quello sonoro non cambia nulla di sostanziale. Il nostro concetto di montaggio riguarda in uguale misura il montaggio del film muto e il montaggio del film sonoro”:
tra la considerazione del montaggio puramente visivo e la considerazione del montaggio che relaziona elementi di aree diverse – in particolare l’immagine visiva e l’immagine sonora – non ci sono differenze di fondo sulla linea della creazione di un’immagine audiovisiva unitaria e coerente.
Per lui il problema consiste, letteralmente,
nel trovare un criterio di comparabilità tale da relazionare un pezzo di musica e un pezzo di rappresentazione. Questa comparabilità deve permetterci di combinare “in verticale”, cioè simultaneamente, ciascuna frase musicale con ciascuna fase plastico-rappresentativa corrispondente nel rispetto di quello stesso rigore di scrittura con il quale noi siamo in grado di combinare “in orizzontale”, cioè nella successione, i diversi pezzi della rappresentazione visiva nel montaggio muto oppure le diverse fasi dello svolgimento di un tema musicale.
Lo scorrere delle immagini nel tempo equivale allo scorrere della musica ad esse sincronizzata. In un’orchestrazione polifonica, ciascuno strumento-sezione musicale segue “orizzontalmente” lo spartito durante l’esecuzione, ma non meno importante e decisivo è la
correlazione musicale dei diversi elementi dell’orchestra in ogni data unità di tempo. Così, con il movimento progressivo della verticale che coinvolge tutta l’orchestra e avanza orizzontalmente, si realizza il complesso e armonico movimento musicale dell’intera orchestra. Se ora passiamo da una partitura musicale a una partitura audiovisiva, osserveremo che in questo nuovo stadioè come se alla partitura musicale si aggiungesse un ulteriore pentagramma: quello delle inquadrature che procedono l’una dopo l’altra conformandosi plasticamente al movimento della musica e viceversa.
Cioè un “montaggio polifonico” (Ejenstejn) di immagini e musica che procedono all’unisono.
Descrittivamente incommensurabili, per il regista sovietico immagine e musica possono essere comparati solo rispetto al
movimento che sta alla base della legge costruttiva del pezzo musicale proprio come sta alla base del principio costruttivo della rappresentazione visiva. È solo il concetto di legge costruttiva – il concetto di un processo e di un ritmo di formazione e sviluppo che coinvolgono a ugual diritto sia la musica che la rappresentazione visiva – ciò su cui può fondarsi l’autentica unificazione di entrambe.
In pratica,
bisogna saper cogliere il movimento di un dato pezzo di musica e usare la traccia di questo movimento, cioè la sua linea o forma, come il fondamento della composizione plastica che deve corrispondere a quella musica. […] Cercheremo così di svelare il “segreto” della successione delle corrispondenze verticali che passo dopo passo collegano la musica con le inquadrature in forza di un unico gesto che fonda sia il movimento della musica che quello della rappresentazione visiva.
Seguendo i propri criteri, per cogliere questo “gesto” egli analizza puntigliosamente una sequenza tratta dal suo film del 1938, Aleksandr Nevskij.Non è questa una sequenza
qualunque: posta al centro temporale del film, la battaglia contro i Teutoni a
cui l'esercito di Nevskij si sta accingendo, è il punto di svolta della
politica di consolidamento territoriale ed espansione del popolo russo
sotto il comando del suo mitico condottiero.
Si tratta delle dodici inquadrature [fisse] dell’ “alba piena di angosciosa attesa” che precede l’inizio dell’attacco e del combattimento dopo una notte di ansia, alla vigilia della “Battaglia sul ghiaccio”. Il carico narrativo di queste dodici inquadrature è semplice: Aleksandr sulla Roccia del Corvo e l’esercito russo ai suoi piedi, sulle rive del lago Čudskoe gelato, scrutano attentamente l’orizzonte in attesa dell’offensiva del nemico.
Schema dell'analisi di Ejzenstejn della sequenza dell'attesa della battaglia sul lago ghiacciato (Alexandr Nevskij, 1938) |
Per Ejzenstejn, il “pezzo più impressionante” è quello composto dalle inquadrature III e IV che descrivono uno "schema di movimento dell’occhio" secondo una linea curva ascendente (a-b), una “caduta” repentina e verticale all’altezza iniziale (b-c) che prosegue con una piatta linea orizzontale (c-d), secondo il disegno riprodotto. In queste inquadrature la piattaforma di lancio è data dalla sagoma scura della Roccia del Corvo:
Da a a b il gesto descrive una crescita “ad arco” verso l’alto: questo arco è tracciato dal profilo delle nuvole scure che incombono sulla parte inferiore, più chiara, del cielo.
Da b a c abbiamo una brusca caduta dell’occhio verso il basso: dal margine superiore dell’inquadratura III fin quasi al margine inferiore della IV c’è il massimo di una possibile caduta verticale dello sguardo.
Da c a d il movimento è uniforme e orizzontale, senza impennate o cadute, interrotto due volte dalle cime delle bandiere che si innalzano dal profilo orizzontale delle truppe.
L’analisi prosegue con le inquadrature I, VI-VII, IX-X. Il “movimento” a-b-c-d, espresso in termini di superficie grafica (l’arco delle nubi e la linea orizzontale dell’esercito schierato) viene in queste inquadrature ripreso a altri livelli, “con qualsiasi altro strumento di espressione plastica”.
L’inquadratura I “prende forma emergendo dal buio”, non più secondo una linea grafica ma tonale, dall’oscurità al chiarore, attraverso una dissolvenza dal nero che mima l’approssimarsi dell’alba. Il movimento di ascesa è dato quindi dall’aumentare della luce nel quadro, puntellata dalle macchie scure date dalle nubi in cielo.
La coppia di inquadrature VI-VII modula la stessa struttura, stavolta però in senso spaziale, nella profondità creata dalla prospettiva:
Qui le truppe si dispongono come fossero delle quinte (1, 2, 3, 4) in profondità, a partire dai quattro lancieri dell’inquadratura VI, che funzionano come piattaforma di lancio che coincide con la parte superficiale dello schermo da cui inizia il movimento in profondità. Se proviamo a tracciare una linea che unisca queste “quinte” otterremo una certa curva […]. Osservandola attentamente vediamo che si tratta sempre della stessa curva dell’inquadratura III, solo che, questa volta, la sua disposizione non è sul piano verticale dell’inquadratura, ma su quello orizzontale, secondo un movimento prospettico che conduce in profondità.
Il conseguente stacco, la caduta (b-c) non sarà più dall’alto in basso,
bensi… in prospettiva, in profondità. Uno stacco di questo tipo è il “salto” che nell’inquadratura VII segna il passaggio dalla line delle truppe alla… linea dell’orizzonte. Anche in questo caso otteniamo il “massimo dell’interruzione”, poiché in un paesaggio l’orizzonte segna il limite della profondità concepibile!
Con le inquadrature VIII-X si passa dall’esercito “anonimo” ai primi piani dei soldati. In questo senso, l’inquadratura VIII, porta a compimento il movimento creato dalle inquadrature VI e VII (l’esercito sullo sfondo) e diviene elemento di passaggio (il primo piano di Vasilisa) al successivo movimento, quello dato dalle inquadrature IX-X.
Dei tre primi piani, balza all’occhio quello centrale, che produce una direzione dello sguardo nettamente contrapposta a quella delle inquadrature precedenti e successive e che serve ad Ejzenstejn proprio per spezzare una serie monotona con una serie dinamica, ponendo un “indicatore drammaturgico” che non fa altro che rafforzare la direzione generale dell’attenzione verso destra (verso la landa da cui compariranno le truppe nemiche). L’inquadratura IX, con il volto barbuto del vecchio soldato posto in direzione opposta, costituisce la “rampa di lancio”, rispetto alla quale il giovane viso di Savka (inquadratura X) rappresenta l’inarcatura verso l’alto, data non tanto dalla ripresa della direzione consona degli sguardi, ma
in un modo del tutto inatteso: come sbuffi d’alito, nell’aria gelida, prodotti da una serie di gole dal respiro contratto. Dunque il fattore fondamentale grazie al quale il nostro “arco” si incurva, è adesso la tensione crescente che qui si realizza in termini propriamente drammaturgici, come la recitazione di uno stato di ansia crescente.[…]
Ma questa incarnazione può essere osservata anche sotto un profilo volumetrico. Poiché qui, nel passaggio dall’inquadratura X all’inquadratura XI, analogo alla “caduta” da III a IV, abbiamo un salto non meno brusco dal primo piano volumetrico del giovane viso di Savka rivolto verso la macchina al piano generale delle piccole figure che, con la schiena alla macchina, guardano in lontananza. Il salto qui è comunicato non solo dalla “caduta” delle dimensioni, ma anche dalla rotazione delle figure.
Nella sequenza, insomma, lo stesso schema del gesto si manifesta, plasticamente, in tutte le varianti, da quella più astratta, evanescente (luce), a quella più concreta (azione drammatica): tonale (I), lineare (III), spaziale (le “quinte” delle inquadrature VI-VII), drammaturgica e volumetrica (la recitazione in IX-X, il gioco dei volumi nel passaggio da X a XI).E in questo gesto il tema dominante la sequenza, già abbozzato, trova la sua giustificazione, formulazione organica:
Osserviamo di nuovo lo schema generale del gesto. Se cerchiamo di interpretarlo emotivamente, pensando al tema e al carico narrativo del frammento, risulterà che abbiamo a che fare con una particolare curva “sismografica” generalizzata che indica un processo e un ritmo di angosciosa attesa.
Effettivamente si comincia da uno stato di calma relativa, segue un moto di tensione crescente – facilmente interpretabile come un guardare attento e intenso: l’attesa – e, nel momento in cui la tensione raggiunge la soglia limite, ecco un’improvvisa scarica, una completa caduta della tensione, quasi un sospiro di sollievo.[…]
La linea a-b-c riproduce del tutto chiaramente la condizione di chi “trattiene il respiro” fin quasi al punto in cui il torace sembra voler scoppiare per la crescente tensione e per la pressione forzata dell’aria aspirata. “Da un momento all’altro il nemico può apparire all’orizzonte”. “No. Non si vede ancora”. Ed ecco il sospiro di sollievo: la gabbia toracica, piena d’aria trattenuta, con una profonda espirazione si svuota…[…]
Interpretate in questo modo, le nostre curve ascendenti e discendenti e le loro risonanze orizzontali possono essere considerate, in maniera del tutto fondata, come la generalizzazione grafica limite o l’immagine generalizzata del processo di un’attesa carica di angosciosa tensione.
A partire da questa minuziosa analisi plastica, Ejsenstejn procede oltre, con la volontà di dimostrare la corrispondenza necessaria, organica, "verticale", fra elemento visivo ed elemento musicale in un’opera audiovisiva propriamente detta:
dimostrare in che modo e perché una determinata serie di inquadrature poste in una determinata successione con una certa durata sia stata correlata con un certo pezzo di musica proprio così e non altrimenti.
Cercheremo così di svelare il “segreto” della successione delle corrispondenze verticali che passo dopo passo collegano la musica con le inquadrature in forza di un unico gesto che fonda sia il movimento della musica che quello della rappresentazione visiva.
È particolarmente rilevante, qui, il fatto che la musica fu scritta solo una volta ultimato il montaggio plastico. Il movimento plastico del tema fu perfettamente colto dal compositore [Prokofev], proprio come il movimento musicale fu afferrato dal regista nella successiva scena dell’attacco, nella quale, invece, le inquadrature furono “infilate” su una partitura musicale già scritta.
Cercheremo così di svelare il “segreto” della successione delle corrispondenze verticali che passo dopo passo collegano la musica con le inquadrature in forza di un unico gesto che fonda sia il movimento della musica che quello della rappresentazione visiva.
È particolarmente rilevante, qui, il fatto che la musica fu scritta solo una volta ultimato il montaggio plastico. Il movimento plastico del tema fu perfettamente colto dal compositore [Prokofev], proprio come il movimento musicale fu afferrato dal regista nella successiva scena dell’attacco, nella quale, invece, le inquadrature furono “infilate” su una partitura musicale già scritta.
Ripartiamo anche noi dunque dallo schema iniziale completo di musiche, facendo tesoro della prima, parziale, analisi appena condotta di questa sequenza, cioè dalle inquadrature III e IV, corrispondenti alle battute
musicali 5-8:
Prendiamo queste quattro battute e cerchiamo di tracciare in aria con la mano il profilo della linea dinamica che il movimento della musica ci suggerisce.
Prendiamo queste quattro battute e cerchiamo di tracciare in aria con la mano il profilo della linea dinamica che il movimento della musica ci suggerisce.
Il
primo accordo potrebbe configurarsi come una “piattaforma di lancio”.
I
cinque quarti che seguono, in scala ascendente [sottolineatura nostra] avrebbero una naturale visualizzazione nel movimento in
elevazione di una linea continua. Perciò tracceremo, più che una linea che
tende verso l’alto, una linea appena arcuata.
L’accordo
seguente (l’inizio della battuta 7), preceduto da un sedicesimo fortemente
accentato, produrrà di certo su ognuno l’impressione di una brusca caduta: bc.
La serie seguente, formata da una nota in ottava ripetuta per quattro volte
(separate da pause), ha il naturale tracciato di una linea orizzontale
sulla quale le ottave sono segnalate da accenti uguali posti tra c e d.
Questo schema è posto in
corrispondenza alle battute dello spartito e alle inquadrature interessate (la
III e la IV per l’appunto), per le quali, come abbiamo già scritto sopra, Ejzenstejn descrive un analogo schema
di movimento dell’occhio:
entrambi
i grafici del movimento coincidono perfettamente; cioè ha luogo una coincidenza
tra il movimento della musica e il movimento che l’occhio esegue lungo le linee
della composizione plastica. In altre parole, lo stesso gesto sta alla
base sia della struttura musicale che di quella plastica.
Penso
che questo gesto, inoltre, abbia una precisa consonanza con il movimento
emotivo. L’andamento ascendente e tremolante dei violoncelli in re minore
si accorda efficacemente sia con la crescita dell’intensità dell’emozione, sia
con la crescita del senso dell’attesa. L’accordo, in un certo senso, spezza
questa tensione. La serie delle ottave descrive la linea orizzontale immobile
delle truppe dando l’idea di un esercito schierato in una lunga linea frontale.
Il senso di attesa, dopo una sola battuta, comincia di nuovo a crescere nella V
inquadratura e, con maggiore intensità, nella VI e così via
Quindi secondo Ejzenstejn tout
se tient, organicamente: immagine, suono, drammaturgia. Proseguendo, rileva altri
particolari:
È
interessante che la IV inquadratura, cui corrispondono le battute 7 e 8,
contenga due bandierine là dove la musica contiene quattro ottave. È come se
l’occhio passasse due volte per le bandierine e il fronte sembrasse due volte
più largo di quello che effettivamente vediamo nell’inquadratura. Procedendo da
sinistra a destra, l’occhio “stacca” le ottave corrispondenti alle bandierine e
le due note rimanenti prolungano il processo percettivo a destra, fuori campo,
dove l’immaginazione si figura la prosecuzione della linea frontale delle
truppe.
Questo movimento musicale si ripete, attraverso variazioni e cambi di tonalità, per tutta la sequenza presa in esame, come si può notare dalla partitura (anche i profani si accorgono dello schema ascendente e poi orizzontale delle note). Ogni gesto musicale corrisponderà a un gesto della messa in scena. Così l’andamento ascendente della musica corrisponde, nell’inquadratura I, al progressivo illuminarsi della scena, nell’inquadratura III all’arco delle nubi in cielo, nelle inquadrature VI e VII alla fuga prospettica dell’esercito schierato, nell’inquadratura X al fiato che esce dalle bocche nella gelida e ansiosa attesa. Nel suo saggio Ejzenstejn approfondisce e scandaglia minuziosamente i rapporti che intercorrono fra la musica e le immagini del suo film, qui abbiamo riportato solo qualche esempio, per cui val la pena leggere per intero lo scritto del regista russo, in ogni caso, lo schema che egli adotta è così chiaro che le altre corrispondenze da lui rintracciate fra immagine e suono, qui sottaciute, appaiono facilmente intuibili.
Nel frattempo sarà nata però nel lettore una domanda spontanea: come si può mettere in relazione una lettura spaziale (visiva) con una lettura temporale (musica)? Il regista si rende conto del pericoloso crinale e lo affronta di petto, con considerazioni che la teoria del cinema ha fatto proprie e che sono emerse anche dalla metodologia didattica di questo libro. E infatti Ejzenstejn prosegue:
A questo punto sorge una domanda del tutto naturale: Ma scusate! Come si può paragonare un rigo di musica con una singola rappresentazione visiva? La parte sinistra di un rigo musicale e quella di una inquadratura non significano forse due cose completamente diverse?
L’immagine immobile ha un’esistenza spaziale, esiste, cioè, nella simultaneità, e la sua parte sinistra o destra o il suo centro non hanno il carattere della successione temporale. Invece sul pentagramma noi troviamo proprio un processo temporale in cui la parte sinistra significa “prima” e la parte destra “dopo”.
Tutte queste obiezioni avrebbero senso se nell’inquadratura i singoli elementi apparissero in successione […]. A prima vista comunque questa obiezione suona del tutto ragionevole e fondata.
Ma qui si omette una circostanza straordinariamente importante, e cioè il fatto che l’insieme immobile della rappresentazione visiva non viene recepito con tutte le sue parti simultaneamente dallo spettatore (con l’esclusione di quei casi in cui la composizione è stata pensata proprio in vista di un tale effetto).
L’arte della composizione plastica consiste nel guidare l’attenzione dello spettatore secondo quella precisa successione con cui l’autore fa muovere l’occhio sulla superficie del quadro (o su quella dello schermo, se abbiamo a che fare con l’inquadratura).
L’arte della composizione plastica consiste nel guidare l’attenzione dello spettatore secondo quella precisa successione con cui l’autore fa muovere l’occhio sulla superficie del quadro (o su quella dello schermo, se abbiamo a che fare con l’inquadratura).
A questo punto Ejzenstejn apre una digressione per dimostrare come questa “via per l’occhio” sia maturata nel tempo, a partire da forme primitive, come quella di dipingere una vera e propria strada lungo la quale gli avvenimenti si distribuiscono, in un’unica tavola, secondo la successione desiderata (per esempio le medievali rappresentazioni delle vite dei santi); fino a quelle più complesse, nelle quali questa “via per l’occhio” si trasforma, passando da una dimensione rappresentativa a una dimensione compositiva fino al caso emblematico dell’analisi di Rodin del quadro di Watteau, Imbarco per Citera (vedi il post). E dunque per Ejzenstejn:
Abbiamo il diritto di dire, per quanto riguarda le nostre inquadrature, che anche in esse c’è l’indicazione intenzionale di un percorso dell’occhio?
Non solo dobbiamo rispondere affermativamente, ma anche aggiungere che questo movimento che va da sinistra a destra, in modo concorde per tutte e dodici le inquadrature e, per il suo carattere, realizza una piena corrispondenza con la natura del movimento musicale. […]
Questo movimento è sottolineato anche da un “indicatore” drammaturgico: la direzione degli sguardi dei personaggi che volge sempre dalla stessa parte. Fa eccezione il primo piano della IX, che guarda a sinistra, ma in questo modo esso non fa che rafforzare la direzione generale dell’attenzione verso destra. […]
L’intero complesso dei 12 pezzi mira proprio a produrre questo sentimento: il principe sulla roccia, l’esercito ai piedi della roccia, la comune attesa: tutto è rivolto là, verso la destra, in lontananza, in un punto oltre il lago da cui apparirà il nemico per ora ancora invisibile.
Non solo dobbiamo rispondere affermativamente, ma anche aggiungere che questo movimento che va da sinistra a destra, in modo concorde per tutte e dodici le inquadrature e, per il suo carattere, realizza una piena corrispondenza con la natura del movimento musicale. […]
Questo movimento è sottolineato anche da un “indicatore” drammaturgico: la direzione degli sguardi dei personaggi che volge sempre dalla stessa parte. Fa eccezione il primo piano della IX, che guarda a sinistra, ma in questo modo esso non fa che rafforzare la direzione generale dell’attenzione verso destra. […]
L’intero complesso dei 12 pezzi mira proprio a produrre questo sentimento: il principe sulla roccia, l’esercito ai piedi della roccia, la comune attesa: tutto è rivolto là, verso la destra, in lontananza, in un punto oltre il lago da cui apparirà il nemico per ora ancora invisibile.
A partire dall’inquadratura 12 si susseguono tre inquadrature della deserta superficie del lago:
E, al centro del terzo pezzo, il nemico apparirà, “introdotto da un nuovo elemento”: il suono del corno, che si spegne sull’inquadratura che rappresenta il gruppo di Aleksandr. Si determina così l’impressione che il suono “veniva da lontano” (la serie dei paesaggi deserti) ed “è arrivato” fino ad Aleksandr (“si è fermato” sull’immagine dei russi).
La lettura in profondità del paesaggio desertico, un po’ com’era avvenuto per il pezzo VI-VII, passa attraverso il gradiente cromatico costituito dalle strisce grigio-bianche di neve che partono dalla zona bassa e arrivano all’orizzonte, e dal suono, “che prorompe dal centro temporale del pezzo, per cui la nostra percezione lo colloca involontariamente e per analogia nel centro spaziale” (Ejzenstejn).
Resta un’ultima domanda, ovvia, alla quale il regista non può sottrarsi, e che si presenta immancabilmente ogni volta che si affronta la questione (“ma sapevate tutto in anticipo? Come avete potuto prevedere/programmare tutto prima?”), è risolta da Ejzenstejn in maniera molto elegante, condivisibile ed estendibile a qualsiasi contesto di creazione artistica:
Una domanda simile in genere tradisce la completa ignoranza di chi la pone circa le effettive modalità del processo creativo.
È del tutto erroneo pensare che, una volta conclusa la sceneggiatura – più o meno di ferro che sia – si concluda anche, con una meticolosa predeterminazione, tutto il processo creativo e il ritrovamento delle sue rigorose formule compositive.
Le cose non stanno così o, nel migliore dei casi, stanno così solo parzialmente. Soprattutto quando sia in gioco una costruzione di tipo “sinfonico” nella quale i pezzi vengono correlati in base a rapporti dinamici suggeriti dall’articolazione di un ampio tema emotivo e non in base a esigenze di pura narratività o di pura verosimiglianza.
Ma il processo creativo è strettamente connesso anche con un’altra circostanza, e cioè col fatto che nel corso del lavoro non vengono mai formulati quei “come e quei “perché” i quali determinano di volta in volta la scelta delle “corrispondenze” e dei ritmi. Durante il lavoro una scelta appropriata non deriva mai da una valutazione logica, come succede invece nel corso di un’analisi del genere di quella che abbiamo appena svolto, ma nasce direttamente nell’azione.
Non si costruisce un’idea con delle deduzioni intellettuali, la si esprime in inquadrature e in processi compositivi.
È del tutto erroneo pensare che, una volta conclusa la sceneggiatura – più o meno di ferro che sia – si concluda anche, con una meticolosa predeterminazione, tutto il processo creativo e il ritrovamento delle sue rigorose formule compositive.
Le cose non stanno così o, nel migliore dei casi, stanno così solo parzialmente. Soprattutto quando sia in gioco una costruzione di tipo “sinfonico” nella quale i pezzi vengono correlati in base a rapporti dinamici suggeriti dall’articolazione di un ampio tema emotivo e non in base a esigenze di pura narratività o di pura verosimiglianza.
Ma il processo creativo è strettamente connesso anche con un’altra circostanza, e cioè col fatto che nel corso del lavoro non vengono mai formulati quei “come e quei “perché” i quali determinano di volta in volta la scelta delle “corrispondenze” e dei ritmi. Durante il lavoro una scelta appropriata non deriva mai da una valutazione logica, come succede invece nel corso di un’analisi del genere di quella che abbiamo appena svolto, ma nasce direttamente nell’azione.
Non si costruisce un’idea con delle deduzioni intellettuali, la si esprime in inquadrature e in processi compositivi.
Involontariamente
vien fatto di pensare a Oscar Wilde il quale diceva che nell’artista le idee
non nascono “nude” ma, al contrario, già vestite di marmo, di colori e di
suoni.
L’artista pensa direttamente nel manipolare i suoi strumenti e materiali. Il suo pensiero si converte in operazione diretta, formulata non da una formula ma da una forma. (Mi si perdoni questo gioco di parole, ma esso esprime tremendamente bene il rapporto reciproco di tutti e tre questi elementi).
Certo, anche in questa “spontaneità” le necessarie regolarità, le basi e le motivazioni proprio di questa e non di un’altra disposizione, attraversano il filtro della coscienza […], ma la coscienza non si impegna nell’“esplicitazione” (doskazyvanie) di questi motivi, essa si dedica esclusivamente alla costruzione stessa. Il piacere di decifrare questi “fondamenti” fa parte di quel lavoro di analisi a posteriori che si realizza a volte molti anni dopo la “febbre” dell’“atto” creativo: quell’atto a cui si riferiva Wagner quando, all’apice della sua creatività, dopo essersi rifiutato di collaborare a una rivista teorica fondata dai suoi amici scrisse: “Quando agisci non c’è nulla da spiegare”.
Ma non per questo i frutti dell’“atto” creativo sono meno severi o regolari, come abbiamo cercato di dimostrare col nostro studio dei materiali del montaggio.
L’artista pensa direttamente nel manipolare i suoi strumenti e materiali. Il suo pensiero si converte in operazione diretta, formulata non da una formula ma da una forma. (Mi si perdoni questo gioco di parole, ma esso esprime tremendamente bene il rapporto reciproco di tutti e tre questi elementi).
Certo, anche in questa “spontaneità” le necessarie regolarità, le basi e le motivazioni proprio di questa e non di un’altra disposizione, attraversano il filtro della coscienza […], ma la coscienza non si impegna nell’“esplicitazione” (doskazyvanie) di questi motivi, essa si dedica esclusivamente alla costruzione stessa. Il piacere di decifrare questi “fondamenti” fa parte di quel lavoro di analisi a posteriori che si realizza a volte molti anni dopo la “febbre” dell’“atto” creativo: quell’atto a cui si riferiva Wagner quando, all’apice della sua creatività, dopo essersi rifiutato di collaborare a una rivista teorica fondata dai suoi amici scrisse: “Quando agisci non c’è nulla da spiegare”.
Ma non per questo i frutti dell’“atto” creativo sono meno severi o regolari, come abbiamo cercato di dimostrare col nostro studio dei materiali del montaggio.
Oltre che per cercare di donare la freschezza narrativa e il suo piglio didattico, abbiamo riprodotto ampi stralci dell’articolo del regista russo perché evidenzia la minuzia interpretativa, la fede quasi, di poter cogliere tutti quegli elementi espressivi che, per definizione restano impalpabili (su questo versante, credo che gli insegnanti di musica potrebbero trovare di che sbizzarrirsi). Secondo Adorno, Ejzenstejn avrebbe semplicemente “trovato una somiglianza fra linee plastiche e struttura musicale”, tuttavia il suo rappresenta il primo concreto tentativo di dare una lettura stratigrafica dell’immagine audiovisiva, dove il termine “audiovisivo” sta a indicare finalmente un processo di significazione organico in cui immagine e suono non sono cose separate e aggiunte una all’altro, ma un significante unico, come nell’orchestrazione contrappuntistica, appunto, dove la scrittura musicale dei singoli strumenti, pentagrammatica, orizzontale, ha senso solo in rapporto, in accordo, a tutti gli altri, verticalmente. Ecco chiarito il senso del cosiddetto montaggio verticale, come espresso da Ejzenstejn e da lui ribadito anche attraverso una metafora, quella del muro di mattoni che, per reggere, deve essere costituito di mattoni alternati, non disposti impilati uno sopra l’altro, ma questa metafora non è del tutto calzante perché, precisa Ejzenstejn, una eccessiva uniformità porta alla monotonia, mentre per la crescita organica, emotiva dell’audiovisivo è necessaria una studiata discontinuità fra il ritmo dell’immagine e il ritmo del suono.
A questa lezione si riferisce Kubrick con il suo omaggio eisensteiniano in 2001: Odissea nello spazio.
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