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domenica 11 ottobre 2020

3.5.2 Il montaggio verticale in Kubrick: 2001 Odissea nello spazio

Nel suo saggio (Il montaggio verticale) Ejzestein evidenzia di essere partito da una sequenza già montata a cui l’autore delle musiche (Prokofev) ha colto il “movimento plastico” del tema insito nella sequenza, “proprio come il movimento musicale fu afferrato nella successiva scena dell’attacco [all’esercito teutonico], nella quale, invece, le inquadrature furono ‘infilate’ su una partitura musicale già scritta”. Il regista respinge poi di aver “forzato” a posteriori la lettura della sequenza nei termini a lui più congeniali.

Eppure abbiamo esempi di musiche “di repertorio” usate in sequenze molto diverse di film diversi. La stessa musica di Prokofev usata per “infilare” – come scrive Ejzenstein – le inquadrature della battaglia sul ghiaccio in Alexandr Nevskij furono poi pari pari utilizzate con fine parodico da Woody Allen nel film Amore e Guerra del 1975, ma perfettamente “funzionanti”, pur su scelte registiche differenti, anche per chi non avesse contezza del calco musicale messo in atto. Di esempi come questo se ne potrebbero accumulare tantissimi e sembrerebbero quindi sconfessare la validità dell’approccio di analisi proposto e attuato dal regista russo: se una stessa musica può indifferentemente essere utilizzata in sequenze di ritmo e soggetti diversi, non se ne può dichiarare il rapporto necessario, organico, con una sequenza specifica. In realtà, quello che Ejzenstein mette in evidenza con la sua analisi a posteriori, va ben oltre le intenzioni stesse del regista, salvaguardandone al contempo la produttività analitica ed esegetica, tanto per finalità critiche che creative. Il valore dell’analisi sta nel dimostrare che l’occhio e l’orecchio sono alla ricerca costante di una loro “sincronizzazione” all’interno della con-temporaneità audiovisiva. La quale emerge e si fortifica quanto più il rapporto fra visivo e sonoro non è pleonastico (un semplificante mickey mousing) ma contrappuntistico, cioè in relazione armonica e ritmica. Per spiegarlo Ejzenstein utilizza l’immagine del muro di mattoni, che non è solido se i singoli strati (i.e. suono-immagini) che lo compongono sono composti di mattoni impilati uno sull’altro (ma precisando che una eccessiva uniformità porta alla monotonia, mentre per la crescita organica, emotiva, dell’audiovisivo è necessaria una studiata discontinuità fra il ritmo dell’immagine e il ritmo del suono). Anche l’obiezione secondo cui la musica si conosce nel tempo mentre l’immagine spaziale ci appare immediatamente e non in successione, è smontata con argomenti che sono già stati evidenziati nell’analisi dell’inquadratura, e cioè che nella composizione dello spazio visivo il regista cinematografico come il pittore crea una “via per l’occhio”, un percorso di comprensione del contenuto dell’immagine da parte dello spettatore che viene reso plasticamente attraverso la forma e il colore. Questo contrappunto viene orchestrato nel rapporto fra ictus, accenti, dell’immagine rispetto agli accenti della musica: l’occhio e l’orecchio “godranno” nel rintracciarli, mentre li “scotomizzeranno” progressivamente quando pleonastici. Ci saranno sempre dei momenti in cui immagine e suono ci appariranno straordinariamente sincronizzati insieme, anche aldilà delle intenzioni del regista e missaggista. Un po’ come quando, muovendosi al ritmo di una musica, il ballerino, ma anche il comune frequentatore di una discoteca, compirà coreografie differenti seguendo della musica una linea ritmica piuttosto che un’altra. Come scrive Ejzenstein, il rapporto organico fra suono e immagine non si risolve nella coppia di verbi “vedo e ascolto”, ma nell’unità del “io sento” (come nell’inglese “I feel”). In un film, la scelta di una sequenza musicale piuttosto che un’altra, è dunque semmai legata all’esito emotivo (la “coloritura”) che si vuole ottenere, che può raggiungere la massima enfasi o risolversi in un anticlimax, cioè essere in diversa misura empatica o anempatica (Chion). L’analisi proposta da Ejzenstein ha il pregio di aver posto sullo stesso piano visivo e sonoro, ponendosi come un direttore d’orchestra rispetto al pubblico, cioè preoccupandosi che l’insieme delle sollecitazioni sensoriali ottenesse l’effetto che il compositore aveva previsto. Rispetto all’insieme dei pentagrammi che le varie sezioni dell’orchestra riprodurranno nel tempo attraverso un montaggio orizzontale di note, il direttore d’orchestra-regista si preoccupa dell’esito, del montaggio verticale, dell’accordo istante per istante ottenuto dall’inesorabile procedere delle componenti sonore e visive nella partitura che costituisce l’audiovisivo, di cui quella visiva non è che una sezione ritmica in più rispetto alla partitura sonora. In questo modo Ejzenstein riunisce in una lettura organica e fenomenica ciò che viene costantemente suddiviso (per ragioni pratiche, didattiche, - sindacali? – che poco però aiutano nella costruzione e comprensione del prodotto finale).

Quello che nell’analisi di una sequenza di un proprio film muto (come l'esempio della  Scrematrice, in Il vecchio e il nuovo) il regista russo aveva indicato come processo per raggiungere l’esplosione patetica del montaggio intellettuale, trova ora nella “crescita organica” del rapporto suono-immagine il suo compimento audiovisivo. Anche in questo caso, gli esempi successivi di produttiva applicazione delle teorie e pratiche eizensteiniane non mancano. Tra questi, fra i film italiani si potrebbero citare alcune sequenze di film dei fratelli Taviani, ma quelli forse più celebri non provengono dalla cinematografia russa o europea, come si sarebbe portati a immaginare, bensì dal cinema americano, anche se da un regista sui generis. È infatti Stanley Kubrick a produrre il suo personale omaggio alla lezione di Ejzenstein, in un film nietzschiano quale è il suo 2001: Odissea nello spazio, del 1968. Lo vediamo nella celebre sequenza dell’osso-clava nel lungo prologo preistorico (L’alba dell’uomo) che apre il film. La scelta di Kubrick è motivata anche dalla sua profonda conoscenza del contesto culturale dal quale il regista russo aveva tratto i suoi fondamenti teorici alla prassi. L’ “omaggio”, se così si può definire, rispecchia la totale aderenza del regista americano all’idea del montaggio quale shock fra le immagini-inquadrature isomorfo a quello che produce il pensiero umano, secondo le teorie di Vygotskij fatte proprie da Ejzenstein. Kubrick mette in scena la prima “scintilla” di intelligenza che scaturisce dall’ominide proprio attraverso lo shock, visivo e di montaggio, dell’osso che si trasforma in un’arma, sintetizzando il credo kubrickiano per il quale la conoscenza dell’albero del bene e del male deriva da un atto violento, che la violenza dell’uomo non è tanto una delle conseguenze del suo libero arbitrio, ma ciò che fa dell’uomo quello che è. Il meccanico e casuale urto fra l’osso impugnato dall’ominide e le altre più fragili ossa animali che compongono lo scheletro che ha di fronte, all’ombra della divina lugubre influenza del monolite nero, si trasforma da atto  fortuito, fisiognomico, a descrittivo (Arnheim), deliberato, scaturigine del primo pensiero intelligente. Dapprima il campo totale mostra frontalmente l’ominide accovacciato di fronte allo scheletro di animale, come a cercare qualche rimasuglio commestibile.. Il sole lambisce la sommità del monolite (l’alba) e le note del brano di Strauss iniziano a emergere dal profondo bordone iniziale.

Da semplice osso a arma letale: la sequenza
 L’ominide sembra destarsi osservando il processo di causa-effetto che il suo colpire con un osso altre ossa produce. Le note musicali si impastano al rumore prodotto delle ossa che si scheggiano, saltano, frantumano. Le inquadrature si fanno più brevi e dettagliate sui colpi sempre più decisi che l’ominide scaglia sullo scheletro. Non c’è sincronismo fra le note del crescendo musicale e le azioni dell’ominide, ma quasi un rincorrersi delle une con le altre, fino al dettaglio in ralenti dell’avambraccio che si alza brandendo l’osso. 

Musica e immagini sono ora "sincronizzate" e il colpo-inquadratura che segue coincide con l’esplodere dei timpani, che libera il lungo crescendo e dà finalmente sfogo ai fiati. L’osso è ormai brandito con forza e rabbia, come fosse una clava, il colpo sul teschio lo manda in frantumi e ad esso corrisponde l’inquadratura ravvicinata di un animale (un grosso erbivoro) che stramazza a terra. L’estasi è raggiunta: l’immagine è uscita da sé, il cozzare dell’osso sul cranio ischeletrito si è trasformato in un’inquadratura che rimanda a una possibile azione futura, immaginata dall’ominide. 
 

Il cozzare dell’osso su un altro osso, come quello di un’immagine con un’altra, ha prodotto il primo pensiero, la prima scintilla di intelligenza. La rabbiosa frenesia che prende l’ominide è accentuata da due falsi raccordi, uno sul cranio, e uno sull’animale abbattuto. Ma la sottolineatura del momento culminante della sequenza, la “transustanziazione” dell’immagine da diegetica a extradiegetica, si è già attuata con il rafforzamento attraverso “la rotazione di 180°” (vedi di nuovo il post su Nevskij) dell’inquadratura irrelata dell’erbivoro abbattuto rispetto al colpo inferto al teschio dall’ominide. È “un indicatore drammaturgico”, secondo le indicazioni di Ejzenstein, che potremmo ripetere parola per parola: la direzione degli sguardi, che volge sempre a destra, con il suo volgersi improvvisamente a sinistra, “sostituisce una serie monotona con una serie dinamica”. L’unica inquadratura rivolta a sinistra, “rafforza ulteriormente il senso della direzione dello sguardo”. 
E infatti, le inquadrature che seguono tornano “normalmente” a volgersi verso destra, compresa la finale ripetizione dell’inquadratura dell’erbivoro abbattuto! Kubrick molto probabilmente ha montato due volte la stessa sezione di pellicola, una volta “rovescia” e l’altra “dritta”. 

L’ominide, nel momento in cui scopre la corrispondenza diretta fra l’osso e la possibilità di usarlo per uccidere, visualizza nella mente la sua vittima e si eccita all’idea, in un’estasi dionisiaca. Le ossa, come due scariche neurali, si scontrano e creano il pensiero. La prima protesi umana, il primo strumento prodotto dalla sua intelligenza, è un’arma. Gli servirà per cacciare, certo, gli altri animali, ma anche i propri simili e sopraffarli. E infatti il prologo preistorico si conclude con l’osso lanciato in cielo che si trasforma, con uno stacco netto, in un’astronave fluttuante nello spazio interplanetario: un montaggio formale/analogico (armonico direbbe Ejzenstein) e sul movimento, che raccorda e scavalca, in un battito, milioni di anni. 

Dall'osso all'astronave: l'ellissi estrema e il Danubio blu.

E con le musiche di un altro Strauss, Johann (nessuna parentela con il precedente), Kubrick compone un altro famoso montaggio verticale, tanto apollineo questo quanto l’altro era dionisiaco. Se l’altro era un incitamento, quasi marziale, alla volontà di potenza, questo diventa la lieve danza di oggetti senza peso in uno spazio vuoto e necessariamente silenzioso, quasi a voler rendere una celestiale musica delle sfere. Il movimento non è infatti tanto quello degli oggetti ma della macchina da presa rispetto ai modellini di astronavi. Attraverso essa si passa dallo spazio smisurato in cui galleggiano navi spaziali agli ambienti ristretti e asettici della cabina in cui Bowman si è appisolato, dall’astronave-osso, all’astronave-stilografica: due montaggi armonici in perfetta struttura chiastica.


















Rimatrimonio e musica (an-) empatica
Certo, Johann Strauss non ha scritto quel valzer pensando a Kubrick, ma nemmeno pensando all’irridente utilizzo che della sua musica fa Jancso in Vizi privati, pubbliche virtù (1976) dove un’orgia sempre più sfrenata è orchestrata al ritmo del Bel Danubio blu. Allo stesso modo, nemmeno Kubrick poteva pensare che le sue astronavi cullate dalla musica di Strauss sarebbero poi state sostituite da un nuovo modello degli orologi Swatch (stagione 2001!). Il fatto è che la musica agisce potentemente sulla memoria come “traghettatore” di immagini, è una straordinaria madeleine, ma allo stesso tempo non si dimostra per nulla schizzinosa, “va d’accordo con tutti” (come d’altronde evidenziano oggigiorno le svariate clip video più o meno casalinghe rinvenibili su youtube a partire dallo stesso brano musicale). Insomma, la lezione del regista russo ha fatto scuola, ma ha creato anche una “retorica” per cui, di patetico in patetico, si può scadere nel melodrammatico o nel trash. La musica di Strauss (Così parlò Zarathustra) non è la responsabile della trasfigurazione patetica dell’immagine, il montaggio sarebbe stato in grado di compierla in forza del ritmo e dinamiche interne delle inquadrature, come dimostra la precedente analisi della sequenza della Scrematrice, ma la musica accentua, incalza, fluidifica, amplifica e riunifica, cristallizzandolo sinestesicamente, il messaggio, il significato ultimo dell’intera sequenza. Lo fa agendo su certi accenti dell’immagine in movimento piuttosto che su altri. Un altro brano musicale avrebbe comunque “funzionato”, perché avrebbe agito su altri accenti dell’immagine. La “trasformazione estatica” dell’immagine avrebbe comunque avuto luogo, ma il suo significato ultimo sarebbe mutato, la sua “coloritura” emotiva sarebbe risultata diversa. Questo slittamento semantico è stato didatticamente sperimentato più volte da Chion, con le sequenze e musiche più disparate, operazione che lui definisce di “rimatrimonio” fra immagini e musica. Di fatto, se non conoscessimo le fasi produttive del film o semplicemente non conoscessimo la musica (di repertorio) utilizzata, non cambierebbe nulla nella nostra comprensione della sequenza (quante musiche di repertorio utilizzate nei film di Kubrick sono conosciute come tali dal grande pubblico? Bartok, Ligeti, Kachaturian... sono compositori decisamente di nicchia). È questo grado “enfatico” comunque esercitato dal montaggio verticale che l’ha reso “proibito” ai fautori di un audiovisivo senza musica che non fosse diegetica, proprio per non “aggiungere” nulla che potesse edulcorare, “drogare” o “ubriacare” le immagini, come direbbe Bresson. Al posto della musica "il silenzio, o quei rumori che rendono il silenzio" (ancora Bresson). D’altronde la coloritura che un brano musicale dona a una qualsiasi inquadratura è ben resa dall’espressione “musica del paesaggio”: uno spoglio paesaggio grigio e invernale è già di per sé una “musica” triste, funerea, rispetto a un ridente paesaggio primaverile e soleggiato. E semmai la musica, nei suoi diversi gradi di interazione con l’immagine, potrebbe risultare an-empatica (Chion) rispetto alle immagini, agire sullo spettatore per la stridente contrapposizione fra ciò che è percepito da un senso (la vista) rispetto all’altro (l’udito), quindi non acuta ma ottusa.

Io la conoscevo bene - scena finale
 Un esempio, il finale di Io la conoscevo bene (Pietrangeli,  1965) quando la musica suona imperturbabile una allegra marcetta mentre la protagonista, interpretata da Stefania Sandrelli, prepara il suicidio.






2 commenti:

  1. Montaggio verticale parodico: il caso 2001

    Come segnalato all’interno del post originale, il film di Woody Allen del 1975 Amore e Guerra ricalca fedelmente la sequenza della battaglia sul ghiaccio di Alexandr Nevskij. La scena, che venne utilizzata da Ejzenstein come esempio per la sua teoria del montaggio verticale, viene riproposta da Allen in un contesto parodistico, sovvertendone in maniera surreale i toni solenni e drammatici, seguendo però la stessa scansione e sincronia che si viene a creare tra suono e immagine. La musica di Prokofev, che entra in rapporto contrappuntistico con le inquadrature del film di Ejzenstein, supera il contesto originario e funziona anche su nuove immagini che presentano uno scopo differente. Questo esempio dimostra la valenza della teoria del montaggio verticale, funzionante anche quando viene implementata, più o meno coscientemente, all’interno delle parodie; ciò trova riscontro anche nel caso di 2001: Odissea nello Spazio.

    Il capolavoro di Stanley Kubrick è stato uno dei film più impattanti sulla cultura popolare e, con le sue scene iconiche, anche uno dei più parodiati all’interno dei prodotti audiovisivi; in particolare la sequenza iniziale The Dawn of Man è diventata oggetto di scherno in numerosi film e serie televisive. Calzante risulta essere l’esempio del film del 2001 diretto da Ben Stiller Zoolander; in una sequenza del film Derek e Hans devono estrarre dai file da un computer ma, da completi inetti in campo tecnologico, non sanno come utilizzarlo e cominciano a colpirlo producendo movenze e versi scimmieschi. I due continuano con sempre maggiore intensità sulle note di Così parlò Zarathustra e, anche se a differenza del film di Kubrick il brano di Richard Strauss non viene qui utilizzato nella sua interezza (la scena dura meno di un minuto), assistiamo come in 2001 ad un rapporto contrappuntistico tra immagine e suono, a un rincorrersi tra le due componenti, senza particolare sincronismo tra azioni e musica. La sincronia arriva nel momento in cui Hans nota un antico osso messo in esposizione nell’ufficio, momento che coincide con un enfatizzarsi del brano di Strauss; Hans prende poi l’osso con l’intenzione di colpire il computer, ma viene fermato da Derek, andando a concludere questa sequenza parodistica con la figura dell’anticlimax.

    [continua]

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  2. [continua]

    Anche I Simpson, serie animata di grandissimo successo che ha spesso proposto parodie di vari aspetti della cultura popolare, ha parodiato in più occasioni la pellicola di Kubrick. Per esempio, l’ottavo episodio della terza stagione, Il pony di Lisa, inizia con Homer che sogna di essere uno degli ominidi del film; il gruppo di scimmie si accorge ben presto del monolite e, incuriosito, comincia a studiarselo. Subito dopo, sulle note di Così parlò Zarathustra, gli ominidi scoprono prima l’utilizzo degli utensili, con una scena che ricalca quella del film, poi il fuoco e la ruota; anche in questo caso musica e azioni non sono sincronizzate ma si rincorrono tra di loro. La sincronizzazione tra suono e immagine arriva quando Homer-scimmia si appoggia al monolite, accompagnato da un crescendo musicale: dopo aver scoperto vari utensili, l’uomo scopre infine il riposo e l’ozio.

    Così parlò Zarathustra viene utilizzato anche in Homer nello spazio profondo, quindicesimo episodio della quinta stagione, applicata però su un’altra scena, volta comunque a parodiare 2001. Alla fine dell’episodio, Bart lancia in aria un pennello che diventa un satellite della Fox, il quale finisce poi per sbattere contro un feto cosmico con le sembianze di Homer; la musica di Strauss, pur applicata su una sequenza diversa da quella di The Dawn of Man, si sposa bene con lo scorrere delle immagini. Sempre nello stesso episodio, viene utilizzato anche un altro brano reso iconico dal film di Kubrick, ovvero Sul bel Danubio blu di Johann Strauss; in questa sequenza Homer, in missione spaziale, mangia delle patatine levitanti a gravità zero. In questo caso però, c’è una quasi perfetta sincronia tra immagine e suono, in quanto i morsi di Homer avvengono per lo più seguendo la cadenza musicale del brano di Strauss.

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