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venerdì 9 ottobre 2020

3.1 L'avvento del sonoro

Kinetoscopio Edison
Alla fine degli anni ’20, quasi improvvisa, si attua la prima grande riconversione dell’industria cinematografica, quella del sonoro, per ampiezza e conseguenze paragonabile solo a quella in atto in questi anni, con il passaggio dell’industria cinematografica al digitale.
Le conoscenze e le applicazioni tecnologiche che poi verranno sfruttate per il cinema sonoro erano note fin dall’inizio del secolo (un portale straordinario su questo argomento è: FilmSound.org). Si sa anzi che Thomas Edison aveva inventato il suo kinetoscopio non tanto come spettacolo a sé, ma con l’idea che divenisse il completamento del suo fonografo. Egli voleva mostrare chi cantava e parlava, un po’ come il videotelefono di oggi. Vi furono nei primi anni del ‘900 parecchi esperimenti e brevetti depositati fra le due parti dell’Atlantico che testimoniano il grande interesse rivolto in questa direzione e che le possibilità tecniche non mancavano, come aveva dimostrato la precoce realizzazione in Francia delle Phonoscéne della Gaumont. 
 
Allora perché attendere un trentennio prima di sfruttare il suono al cinema? Si sono date molte interpretazioni, forse le più realistiche sono quelle che spiegano la cosa in termini industriali. L’industria cinematografica era nata e si era sviluppata “monca” del sonoro eppure aveva raggiunto livelli di diffusione planetari, aveva portato denaro e fama a tutti coloro che vi avevano partecipato. Anzi, il fatto di comunicare attraverso le sole immagini, aveva forse costituito la sua maggior fortuna, perché era sufficiente cambiare la lingua dei cartelloni pubblicitari, eventualmente quella delle didascalie, e il film era pronto ed esportabile a tutte le latitudini. Il cinema si era costituito come lingua universale, una specie di esperanto iconico, e gli staff tecnico-artistici avevano raggiunto livelli di professionalità e di capacità creativa straordinari, le star del cinema imponevano mode, creavano indotto pubblicitario, animavano i sogni dei fans. Messa in questi termini, prende quasi più valore la domanda contraria: perché rischiare di rovinare con il sonoro questa fruttuosa industria? Il motivo va ricercato proprio nella flessione di pubblico e di investimenti che il cinema americano avverte nella seconda metà degli anni ’20, al quale poi la catastrofica crisi del ’29 diede l’affondo decisivo, ma anche la sferza per rompere gli indugi e cercare nel rinnovamento tecnologico la chiave per uscire dalla crisi. Questa lettura riflette l’impostazione industriale già acquisita da Hollywood, con le sue Case di Produzione fortemente legate alla grande finanza e trova conferma in altre, meno epocali, rivoluzioni tecnologiche adottate da Hollywood per superare in seguito analoghe crisi di mercato, come quella del colore, del formato panoramico, della stereofonia ecc. Insomma, come ogni industria, anche quella del cinema rincorre il mercato attraverso l’innovazione.
Trattandosi di entertainment, l’innovazione doveva svilupparsi nella direzione delle attrattive spettacolari. Se per anni già vedere l’immagine bidimensionale e in bianco e nero di qualcuno che si muove proiettato su uno schermo aveva funzionato ad attirare il pubblico, forse dargli altri motivi di stupore, di ancora maggior illusione realistica, era la soluzione giusta per farlo ritornare al cinema. E così, quelle che sembravano delle sperimentazioni sporadiche, a un certo punto diventarono cartine di tornasole dei gusti del pubblico. Torna ancora valida la prima domanda che ci eravamo posti, perché aspettare tanto? Per i medesimi motivi di carattere industriale: i costi. Passare al sonoro significava riconvertire tutta l’industria, dalla produzione dei film fino alla proiezione nelle sale. E fu proprio questo problema in particolare, quello delle sale, che frenò prima e rallentò poi la diffusione del film sonoro. Perché il suono poteva essere in qualche modo registrato in diretta, ma la sua amplificazione e diffusione nei grandi cinema degli anni ’20 era tutt’altro che semplice, tecnologicamente avanzata, economica, e si impiegarono anni prima che tutte le sale disponessero di proiettori, amplificatori e altoparlanti adeguati. Per questo all’inizio le case di produzione si mossero con cautela e cominciarono con lo sperimentare metodi che non implicassero grandi investimenti tecnologici, non tanto a livello produttivo, che gli investimenti per riconvertire gli studios erano relativamente alla portata, ma proprio per la diffusione dei nuovi film nelle sale. Si cominciò sonorizzando alcuni film muti: alle pellicole girate si associavano delle musiche registrate su disco nelle quali potevano essere presenti degli effetti rumoristici sincronizzati. 
Il primo lungometraggio sonoro distribuito della storia del cinema è il Don Juan di Alan Crosland (Warner Bros.) presentato il 6 agosto 1926 a New York, realizzato muto e sonorizzato a posteriori con accompagnamento orchestrale di W. Axt inciso su disco (con il sistema Vitaphone) Praticamente si era sostituito l'accompagnamento in sala con uno più economico e “originale” (cioè non variabile da esecuzione a esecuzione), ma l’impianto del film rimaneva quello del muto. Ma se era relativamente semplice sincronizzare le musiche e gli effetti rumoristici (eventuali sbavature non avrebbero inficiato la comprensione del film e passavano quasi inosservate a un pubblico abituato alla libera associazione di musica e immagini perlopiù condotta con l’utilizzo di partiture passpartout come i cue sheets), la vera sfida era quella di una puntuale sincronizzazione del labiale (lip sync), per la quale il rapporto fra movimento delle labbra e emissione del suono non ammetteva che minime approssimazioni, pena la dissoluzione del realismo mimetico, con effetti sullo spettatore che potevano andare dallo stupore, fastidio, spaesamento fino all’involontario umorismo.
Lina e il suo "impianto sonoro"
Si veda in questo senso la sequenza di Cantando sotto la pioggia (Singin' in the rain, Donen-Kelly, 1952) in cui la povera Lina Lamont è alle prese con “l’impianto sonoro” sul set del film che la produzione sta cercando in fretta e furia di trasformare in un talkie. Tutta la vicenda narrata nel capolavoro di Donen e Kelly costituisce un divertente e al contempo corretto sotto il profilo storico-tecnologico riassunto delle difficoltà affrontate dall’industria cinematografica per giungere al realismo sonoro.[Su questo argomento, vedi anche il recente film di Damien Chazelle, Babylon (2022), che per certi aspetti costituisce un remake "politicamente scorretto" della Hollywood di quegli anni.]

La sfida per la conquista del lip sync vide diversi contendenti (vedi almeno: D. Gomery, The Coming of Sound: A History, Routledge, 2005; J. Lastra, Sound technology and the american cinema, Columbia Un. Press, 2000; A. Boschi, L'avvento del sonoro in Europa, CLUEB, 1994; le pubblicazioni sull'argomento di o a cura di Rick Altman), ma le principali tecnologie che si sperimentarono furono sostanzialmente due: quella del sound on disc (il sistema Vitaphone) della Warner-AT&T/Western Electrics; quella del sound on film (il sistema Movietone della Fox-RCA/General Electrics), a sua volta su sistemi di lettura con fotocellula su area o densità variabile.

Sound on disc
A spuntarla per prima e provocare la rincorsa al sonoro da parte delle altre grandi case di produzione fu la Warner, che uscì nel 1927-28 con due film interpretati dal famoso attore di Broadway Al Jolson: The jazz singer e il sequel The singing fool. Se The jazz singer è oggi universalmente noto per essere stato il primo parlato della storia del cinema, fu però il secondo ad avere un vero grande successo e a far volgere tutti i competitor verso il film sonoro (cfr. D. Gomery). 
Sequenza da The Jazz Singer

Ma se andiamo oggi a vedere questo film, la prima reazione è quella della delusione. L’impianto è infatti quello di un film muto, con i dialoghi espressi attraverso i classici cartelloni/didascalie e la musica di sottofondo. Salvo per le scene di canto (e rari dialoghi) quando, improvvisamente, le labbra di Jolson si muovono e la voce emerge, perfettamente in sincrono. Questi film erano dei part-talkie, erano cioè costituiti da una serie di dischi musicali appaiati e sincronizzati a ciascun rullo di pellicola, e solo alcuni prevedevano dei dischi in lip sync. Gli all-talkie arriveranno nel 1929, sempre con un primato della Warner, un doppio primato, visto che On with the show!, è anche il primo film distribuito in Technicolor bi-pack, sempre con la regia di Alan Crosland (regista dei precedenti sonori Don Juan e The jazz singer). 
Le tre primizie del sonoro citate hanno una caratteristica comune, sono dei musical, più precisamente dei backstage musical, narrano cioè la storia che accompagna il dietro le quinte della produzione di un musical o di un cabaret show. Con il cinema sonoro nasce anche il genere cinematografico del musical, sulla scia di quelli messi in scena con grande successo nei teatri di Broadway. Le ragioni sono molteplici, alcune evidenti - altre meno, e vale la pena elencarle. Prima di tutto, il film parlato aveva bisogno di attori di teatro brillante visto che non necessariamente gli attori del muto possedevano doti vocali e di dizione, cosa che in effetti portò alcune star del periodo muto a un inesorabile declino. La performance canora era inoltre di sicuro effetto, tanto per stupire con l’effetto speciale quanto per il seguito che gli attori-cantanti avevano presso il pubblico. La scelta della Warner cadde su Al Jolson proprio per la sua fama a Broadway e per il successo dei suoi dischi prodotti e distribuiti dalla Brunswick Records (major discografica che poi nel 1930 fu acquisita dalla Warner). Il musical era inoltre la formula più semplice per dare una patina di realismo ai nuovi set che il sonoro esigeva. Non si poteva infatti registrare il sonoro se non in presa diretta. Gli studi erano dunque insonorizzati e ogni accorgimento veniva preso per evitare rumori fortuiti sul set. Anche la macchina da presa era racchiusa in una cabina insonorizzata, con un vetro sul lato dell’obiettivo, così che suoi movimenti erano limitati se non annullati del tutto. 
La "seconda unità" sul set di The Dueling Chevalier.
Inoltre non era possibile montare il suono registrato per cui si adottò la tecnica delle multiple camera: cabine con cinepresa poste in posizioni diverse attorno al set filmavano in continuità la scena (generalmente una mdp frontale riprendeva la scena in totale, mentre una o due ai lati per medi e primi piani) che veniva poi opportunamente montata tagliando e incollando le diverse pellicole impressionate evitando sovrapposizioni o salti temporali che mandassero il sonoro fuori sincrono (anche questo sistema è visibile sullo sfondo del set nella clip già citata di Cantando sotto la pioggia). Il ritorno a un impianto teatrale che tutto questo comportava costituì una regressione per il linguaggio cinematografico rispetto al plein air, ai virtuosismi di ripresa e di montaggio degli anni ’20. Non solo la voce degli attori, ma anche i rumori e le musiche dovevano essere registrate in presa diretta per l’impossibilità di mixare il suono, e nascondere un’orchestra sul set non era sempre facile, ecco allora che ambientare le storie in teatri o café chantant risolveva molti problemi di setting e di verosimiglianza (lo stesso The Dueling Chevalier, il film nel film di Cantando sotto la pioggia, verrà trasformato in un musical cappa-e-spada: The Dancing Chevalier). Oltre a Broadway ci furono però anche altre valide ragioni per le quali, per un breve periodo, Hollywood spostò la sua attenzione e presenza dalla west alla east coast. A New York avevano infatti sede le banche finanziatrici delle case di produzione, a cui si rivolsero per sostenere economicamente il difficile, costoso, disordinato passaggio al sonoro degli studios e delle sale di proprietà che a NY costituivano la vetrina di Hollywood; ma a NY confluivano anche gli uffici delle industrie nelle tecnologie implicate, quelle dall’altrettanto importante industria radiofonica e discografica, di cui Hollywood aveva necessità anche per le maestranze tecniche e artistiche legate al sonoro (non solo fonici, ma anche speaker, musicisti, autori e interpreti di format radiofonici). Presso i laboratori di queste industrie furono sperimentate le diverse soluzioni per captare, registrare, riprodurre, trasmettere, amplificare il suono. Non è un caso che fra i sistemi di riproduzione del sonoro in sala si fosse sperimentato un sistema telefonico (AT&T/Westrex, 1921) o che il disco a 33 giri al minuto (AT&T/Westrex, 1924) sia nato per essere sincronizzato all’analoga durata di una bobina di pellicola (all’epoca di 300 metri, cioè 11 minuti a 24fps), e che solo in un secondo momento diventerà lo standard discografico che soppianterà il tradizionale e meno performante 78 giri. Analogo discorso, lo vedremo in seguito, si può fare con la tecnologia di lip-sync concorrente, quella del sound on film.
Continuiamo infatti a descrivere i motivi dello straordinario eppur effimero successo del sound on disc. Prima di tutto, permetteva di “aggiungere” il sonoro al film senza intervenire sulla pellicola, sulle mdp, sui proiettori, se non attraverso accorgimenti relativamente economici per facilitare la sincronizzazione dei due supporti. Quindi i costi della conversione interessavano “solo” l’allestimento del set e l’amplificazione delle sale. Ben presto però emersero gli inconvenienti: se per qualche motivo il proiettore o il grammofono si inceppava, la sincronizzazione andava perduta e per il proiezionista non c’era altra possibilità se non quella di interrompere lo spettacolo e riavvolgere e risincronizzare la pellicola con l’ultimo disco utile. Inoltre i dischi avevano una certa usura e non erano più affidabili dopo una ventina di proiezioni, per non parlare della pellicola: se si rompeva, e non era raro, si dovevano reintegrare con altrettanta pellicola trasparente i fotogrammi mancanti, creando dei “buchi” nella proiezione delle immagini. Appare chiaro quello che poi è divenuta un’ovvietà, anche se spesso ancora rimossa, soprattutto oggi in piena convergenza digitalmediale: l’audiovisivo è un medium in sé organico in cui le due componenti, quella visiva e quella sonora, non sono disgiunte e separabili, per questo la strada vincente, per quanto all’inizio in tutti i sensi più costosa, sarà, è stata, quella di raggiungere un unico supporto, la pellicola – allora, il digitale – oggi.

La resa sonora trasforma un innocuo ventaglio in un bastone.
Il ventaglio-bastone (Cantando sotto la pioggia)
Un divertente esempio di quello che poteva succedere durante una proiezione di un film "talkie" con sound on disc, è quello della sequenza che succede a quella di prove dell' "impianto sonoro" di Lina Lamont, ovvero quella in cui viene fatta la disastrosa preview pubblica della copia sonorizzata (in cui emergono anche tutte le problematiche di posizionamento del microfono, "realismo" sonoro, scrittura dei dialoghi, recitazione).

Sound on film
Promotori di questa seconda formula, quella del sound on film, nella contesa dell’epoca furono, come accennato la Fox – RCA/GenEl, che implementarono il sistema messo a punto da DeForest e dalla tedesca Tri-Ergon, che si basava sulla registrazione e riproduzione su pellicola del suono attraverso una fotocellula. Come nel precedente, anche in questo caso il sistema era già efficacemente usato, dal 1924, nella produzione discografica per la masterizzazione del suono. Ma per adattarlo all’industria cinematografica i problemi cominciavano paradossalmente proprio da qui, dalla pellicola. Per dare spazio a quella che poi diverrà per antonomasia la “colonna sonora” del film si doveva agire sullo spazio dedicato all’emulsione, restringendolo; inoltre per essere ben leggibile dalla fotocellula la colonna sonora necessitava di un maggior contrasto rispetto a quello in uso, quindi si doveva intervenire sull’emulsione e sull’illuminazione. In questo senso fondamentali, per la nascita del sonoro, i Mazda tests del 1928, che sanciscono il passaggio alla pellicola pancromatica della Kodak accoppiata alle lampade a incandescenza Mole-Richardson (le precedenti, ai vapori di mercurio, interferivano con la registrazione del suono sul set). Come per il sound on disc, anche per questo sistema di registrazione il sonoro doveva essere preso in diretta, per cui le modifiche che intervengono sulla scena sono le stesse (set silenziati e insonorizzati, mdp racchiuse in cabine). Già la somma delle modifiche necessarie in fase di produzione è notevole, a questa si aggiunge quella delle modifiche per l’esercizio in sala: la sostituzione dei proiettori con quelli abili alla lettura della fotocellula e l’amplificazione del suono. 
     Su questi argomenti propongo come utile esercizio il confronto fra due brevi videosaggi che affrontano la questione con impostazioni diverse a partire da informazioni e documenti in parte simili:
 
Fine della "lingua universale" del cinema
Non c’è settore dell’industria cinematografica che non venga toccato in questa fase, con costi enormi, ai quali gli ulteriori legati alla distribuzione stessa dei film. Con l’avvento del sonoro, la “lingua universale” del cinematografo non esiste più. Se prima bastava modificare l'idioma nella cartellonistica e nelle didascalie, ora è necessario produrre film nelle principali lingue in cui sarebbero stati distribuiti. Fino al ’33, quando sarà raggiunta la tecnologia per il doppiaggio, le maggiori case di produzione americane utilizzano gli stessi set per girare i medesimi film in versioni multiple. Per risparmiare tempo, lo stesso staff tecnico girava una dopo l’altra la medesima scena sostituendo in tutto o in parte lo staff artistico per girare le versioni nelle diverse lingue (di solito almeno in francese, tedesco, italiano). E così di scena in scena, fino a produrre più versioni dello stesso film, a volte con risultati molto diversi fra loro. Le versioni multiple giunte fino a noi sono oggi molto studiate perché hanno molto da rivelare sia sotto il profilo tecnico che culturale del tempo. Se poi gli attori comprimari erano facilmente sostituibili senza inficiare il richiamo pubblicitario del film, il problema si poneva per l’esportabilità delle star, a cui si rimediava con modalità spesso ingegnose e/o con esiti inattesi. Ne citiamo due: Il testamento del Dottor Mabuse (1933) è l’ultimo film tedesco di Lang, sequel del celebre Dottor Mabuse girato da Lang dieci anni prima. Il film non poteva fare a meno del suo attore protagonista, la star tedesca Rudolf Klein-Rogge, così Lang lo rese muto e in preda a grafomania, così che le sue “parole” venivano espresse attraverso le scritte più o meno allucinate delle lettere che scrive in carcere. La geniale trovata di Lang, non solo permise di dare al personaggio una statura ancor più demoniaca (sul quale si è soffermato Chion in La voce al cinema, Pratiche, 1991), ma di poter utilizzare lo stesso attore anche nella versione francese del film. 
Sordi e Zambuto al doppiaggio
Il secondo esempio proviene dalla commedia e riguarda direttamente il pubblico italiano: la versione italiana delle prime comiche sonore di Stanlio e Ollio fu recitata dagli stessi Stan e Oliver (l’alternativa di solito era quella di registrare la voce di un doppiatore fuori scena mentre gli attori in scena fingevano di parlare), con esiti esilaranti di accento e dizione per cui, quando poi si passò al doppiaggio vero e proprio in italiano, ormai il pubblico si aspettava quelle inflessioni: e fu così che le resero Mauro Zambuto (Stanlio) e l’allora esordiente Alberto Sordi (Ollio) a partire dal ridoppiaggio nel 1939 della comica Sotto Zero (Below Zero, 1930). 


Nei primi anni ’30 circolavano nel mondo film muti, film muti sonorizzati, film sound on disc, film sound on film… per mantenere il mercato aperto a chi ancora non aveva rinnovato le sale al sonoro, a chi le aveva rinnovate con un sistema piuttosto che con un altro e voleva giustamente ammortizzare le spese fatte (o le aveva fatte perché era una sala di proprietà della major che aveva imposto un sistema piuttosto che l’altro), fra veti, esclusive, diritti di sfruttamento di brevetti oggetto di contenzioso fra Stati (come per esempio in Europa rispetto al sistema tedesco Tri-ergon). Molte sale indipendenti o di proprietà delle minor, non potendo sostenere le spese del passaggio al sonoro, vennero acquisite dalle major: come ogni grande innovazione imposta dall’alto, l’effetto del passaggio al sonoro fu per le major hollywoodiane quello di distruggere la concorrenza e di rafforzare il loro sempre più ristretto oligopolio. Fu solo con la fine della II Guerra Mondiale che queste barriere, come molte altre, nel bene e nel male crollarono a favore dei vincitori e la liberalizzazione dei brevetti degli sconfitti (in campo cinematografico per esempio, fra i molti brevetti tedeschi, non solo il Tri-Ergon ma anche l’Agfa color).

Suono e tempo
A tutti questi effetti più o meno desiderati conseguenti all’avvento del sonoro, come evidenzia Chion (La voce nel cinema, Pratiche, 1991), la sincronizzazione del visivo al sonoro implica anche un mutamento nell’esperienza stessa del tempo nel film. La necessaria sincronizzazione fra immagine e suono corrispondente, che fosse su disco o su pellicola, comporta uno scorrimento della pellicola/tempo non più, come ai tempi del muto, elastico (16/18 fps) e cronologico, ma fisso (standardizzato a 24 fps) e cronografico; non più sincronico, ma diacronico, vettoriale: una risata generale, resa attraverso tante inquadrature di volti sghignazzanti, non può più essere intesa sia simultaneamente che in successione, come avveniva nel film muto, ma solo in successione, quella donata dal vettore sonoro, che si esplica necessariamente nel tempo. Da tutto ciò emerge lo stacco decisivo che, nel linguaggio filmico, si ebbe con la tecnica della sincronizzazione del sonoro su pellicola. Con il suono su disco sono proprio le problematiche tecniche a evidenziare questo difficoltoso mutamento, mentre lo spettacolo filmico non si poteva definire ancora audiovisivo, proprio perché il film, con il sonoro separato, non subiva la violenza fisica dell’innesto del suono nella sua struttura. Con il suono su pellicola, la già “doppia esposizione” costitutiva della proiezione del film in sala, come direbbe Ejzenstejn (in Montaggio verticale, p. 135), ora si raddoppia ulteriormente nel proiettore con l’esposizione alla luce, in contemporanea, del sonoro (ottico) e del fotogramma. 
 

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